Imposte

Residenza fiscale ed emergenza Covid, i criteri Ocse senza piena efficacia

Le tie breaker rules rischiano di rivelarsi insufficienti quando, a fronte dell’involontaria permanenza in Italia, il contribuente perda la qualifica di fiscalmente residente nello Stato d’origine

di Roberto Smilari e Marco Strafile

Il ministero dell’Economia in risposta a un’interrogazione parlamentare di Italia Viva in commissione Finanze alla Camera ha fornito alcuni importanti chiarimenti in ordine alle implicazioni delle restrizioni alla mobilità internazionale imposte a fronte dell’emergenza Covid-19 sulla residenza fiscale delle persone fisiche che, a causa della chiusura delle frontiere, si sono visti costrette a permanere, contro la propria volontà, in un Paese diverso da quello in cui abitualmente vivono.

Tali criticità erano state opportunamente sottolineate dall’Ocse che, con la nota del 3 aprile 2020, affrontando la problematica legata alla variazione dello status di residenza della persona fisica dovuta alla situazione emergenziale, già raccomandava agli Stati nazionali l’adozione di un più elastico criterio di individuazione del luogo di soggiorno abituale del soggetto, fondato su parametri di frequenza, durata e regolarità.

Giova ricordare, infatti, che i criteri che stabiliscono la residenza fiscale nei vari Stati (che possono considerare come determinanti ai fini dell’acquisto del richiamato status anche elementi ulteriori rispetto a quello della presenza fisica della persona nel Paese) possono far emergere situazioni in cui un soggetto, per uno stesso periodo di imposta, risulti fiscalmente residente in due Stati. In tali ipotesi, ricorda il ministero, sovvengono le disposizioni previste dall’articolo 4 del modello Ocse di convenzione fiscale che «individuano i criteri dirimenti (le tie breaker rules) al fine di stabilire la residenza della persona ai fini della Convenzione. Tali regole prendono in considerazione, nell’ordine, i criteri della disponibilità di un’abitazione permanente, il centro degli interessi vitali, il luogo in cui il soggetto soggiorna abitualmente, la nazionalità».

Proprio alle norme convenzionali bisogna guardare, secondo il ministero, per trovare una soluzione alle problematiche sulla residenza fiscale causate dal Covid-19; infatti «la circostanza per cui una persona fisica non residente fiscalmente in Italia, sia stata costretta a prolungare il periodo di soggiorno in Italia a causa della circostanza straordinaria ed eccezionale della pandemia, indipendentemente dalla volontà del soggetto, dovrebbe essere tenuta in considerazione, al fine di stabilire per detta persona una variazione di residenza ai fini del trattato (con particolare riferimento al citato criterio del “soggiorno abituale”)».

Si tratta sicuramente di un’importante apertura del ministero che tuttavia, ad un’analisi più attenta sembra presentare alcune criticità; infatti, occorre rilevare come l’articolo 4 risulti applicabile, nelle sole ipotesi in cui, in base all’ordinamento domestico di entrambi gli Stati coinvolti, si registri un conflitto “positivo” in ordine alla residenza fiscale del contribuente. Ciò che, a ben vedere, non consentirebbe di ricorrere ai criteri dirimenti ivi previsti in tutte le ipotesi in cui, a fronte dell’involontaria permanenza in Italia, il contribuente perda la qualifica di fiscalmente residente nello Stato d’origine.

Ma, vieppiù, anche laddove le tie-breaker rules previste dall’articolo 4 del modello Ocse risultassero validamente applicabili, queste potrebbero rivelarsi inidonee a neutralizzare indesiderati trasferimenti della residenza fiscale. Va infatti osservato come i principi dettati dall’articolo 4 risultino attivabili secondo un preciso ordine gerarchico (richiamato dallo stesso ministero), nell’ambito del quale il criterio fondato sul luogo di soggiorno abituale del soggetto, ha natura, per così dire, residuale, rispetto ai criteri precedenti, non risultando invocabile in tutte le ipotesi in cui il soggetto disponga, per esempio, di un’abitazione permanente, in uno degli Stati contraenti.

Sotto altro profilo, meritano invece di essere senz’altro salutati con favore i chiarimenti resi dal ministero in relazione all’ambito di applicazione degli accordi interpretativi recentemente raggiunti tra il Governo italiano, da un lato, e la Francia e la Svizzera, dall’altro.

Sul punto, è stato chiarito difatti che le deroghe al principio di territorialità, che regola la tassazione cross-border dei redditi di lavoro dipendente, non riguardano i soli lavoratori frontalieri in senso stretto, risultando invero applicabili anche ai dipendenti che svolgono la propria attività in uno Stato diverso da quello di residenza fiscale.


Per saperne di piùRiproduzione riservata ©