I temi di NT+Modulo 24

Errori di fatturazione, corsa a ostacoli sulla nota di variazione

Tra i problemi ancora aperti la qualifica della rettifica come «detrazione» e la facoltatività della variazione in diminuzione

di Raffaele Rizzardi

Le norme di legge sono figlie del momento in cui sono adottate. Ma se non si provvede a un adeguamento tempestivo quando le condizioni sono mutate, la norma "vecchia" diventa una palla al piede e crea danni irreparabili.

Nell'ambito delle norme Iva questa riflessione viene alla mente quando si legge l’articolo 26 della legge Iva, norma che peraltro è stata completamente riscritta dal 1° gennaio 2016, senza porre mano ai tre problemi essenziali di questa norma:

• la collocazione nel titolo II degli adempimenti e la commistione tra la posizione del cedente o prestatore e quella del cessionario o committente;

• la qualifica della rettifica come «detrazione»;

• la facoltatività della variazione in diminuzione.

Per comprendere queste anomalie occorre risalire al testo iniziale del Dpr 633/1972, che recepisce le prime due direttive del 1967, numero 227 e 228. La loro struttura era estremamente semplice, per non dire rudimentale. La base imponibile era definita dall'articolo 8 della 228, e di variazioni non se ne parlava nemmeno nelle appendici a tale articolo. Conseguentemente non si parla di rettifica della detrazione, come definita all’articolo 11.

Questa prima anomalia si giustifica per la mancanza di norme specifiche sulle variazioni, che arriveranno solo con la sesta direttiva del 1977 (n. 388), ma non sono mai state recepite, nemmeno dopo la conferma nella direttiva di rifusione, la 2006/112/Ce (i cui estremi saranno indicati in corsivo tra parentesi dopo ciascuna norma della sesta direttiva).

La disposizione specifica sulla variazione dell’imponibile e dell’imposta per le operazioni attive è l’articolo 11, lettera C, paragrafo 1 – base imponibile (articolo 90) e per la rettifica della detrazione l’articolo 20, paragrafo 1 (articolo 185), «in particolare in caso di annullamento di acquisti o qualora si siano ottenute riduzioni di prezzo».

Risulta evidente che si tratta di due norme da tenere distinte, cosa di cui il legislatore non terrà conto nemmeno nel 2016.

Passiamo alla seconda: l’uso improprio del termine «detrazione», che porta con sé una marea di problemi, tra cui quello della decadenza per tardività. La detrazione è solo ed esclusivamente il recupero dell’imposta addebitata dal fornitore. Con un viaggio nella memoria pensiamo di aver risolto l’enigma, individuando un contesto che non esiste più, ma che continua a fare danni.

Nel 1972 i soggetti d’imposta (o «contribuenti», come la legge Iva li chiamava allora) non disponevano né di calcolatrici, riservate alle grandi imprese in quanto costosissime, né tanto meno di personal computers o di altri ausili informatici. Pertanto si ritenne, in un’ottica di pseudo-semplificazione, che una somma nel registro opposto fosse più agevole e sicura di una sottrazione in quello pertinente.

Attenzione: la registrazione della variazione in diminuzione, per il 1973 e 1974, poteva essere eseguita soltanto nel registro degli acquisti, il cui totale dà luogo alla "detrazione" dell’imposta sugli acquisti. Per questi anni non era ammessa l’annotazione con il segno meno nel registro fatture.

Nel gennaio del 1974 chi si occupava di imposta sul valore aggiunto era curioso di vedere come sarebbe stata inserita questa anomala registrazione in sede di dichiarazione annuale: con l’annotazione negli acquisti e la qualifica di detrazione ci si aspettava la collocazione nella sezione riservata a queste qualificazioni.

Invece già la prima dichiarazione annuale dice al contribuente: vai nel registro acquisti, cerca le note di variazione e toglile sia dal totale di questa scrittura contabile, sia dal totale di quella relativa alle operazioni attive.

Ci vorrà ancora un anno per disporre dell’allora ultimo comma, in base a cui i cedenti o prestatori «possono» annotare le variazioni nel registro di competenza con il segno meno. Come se qualcuno da allora si sia dilettato a utilizzare il criterio iniziale (presente ancora oggi al comma 2), di passare all’altro registro, eseguire un’unica somma e poi estrarre le registrazioni anomale per fare la dichiarazione.

L’errata qualificazione come detrazione si vede in modo palese nella circolare 20/E del dicembre 2021, in cui si fa riferimento all’articolo 169 della direttiva 2006/112/Ce in cui la norma parla di «beni o servizi utilizzati», cioè di acquisti e non di variazione delle operazioni attive per non parlare dell’articolo 178, in cui si subordina la (vera) detrazione al possesso della fattura del fornitore…

Passiamo alla terza anomalia dell’articolo, la facoltatività dell’emissione della nota di variazione. Questa regola è figlia di un comportamento oggi non più possibile, specie dopo la sentenza Genius Holding del 1989, di portare in detrazione l’imposta addebitata dal fornitore, anche se non dovuta.

All’epoca le dogane, quando riliquidavano i dazi e l’Iva, ne chiedevano il pagamento per conguagli a debito, mentre per quello a credito dicevano formalmente di non fare la domanda di rimborso, in quanto il contribuente aveva già recuperato tutto registrando la bolletta doganale, anche se l’Iva era superiore a quella dovuta.

In questo ambito la sesta direttiva stabiliva l’obbligo di operare la variazione in diminuzione nell’articolo 20, lettera C, paragrafo 1: la base imponibile «viene debitamente ridotta» (ora articolo 90: «la base imponibile è debitamente ridotta»). Per scrupolo vediamo il testo inglese, quello oggi meglio rilevante: shall be reduced, cioè deve essere ridotto.

Un’ultima osservazione sulla obbligatorietà della variazione in diminuzione, cui si ricollega l’obbligatorietà della rettifica della detrazione per il cliente. Una volta c’era il timore che quest’ultimo facesse finta di non aver ricevuto il documento, sottraendosi al suo obbligo.

La legislazione ungherese imponeva la prova che il cliente fosse entrato in possesso del documento di variazione, e la Corte di giustizia ha ritenuto che questo obbligo fosse proporzionato (sentenza 26 gennaio 2012, C-588/10 – Kraft Foods Polska). Ma con la fatturazione elettronica questo problema non si pone minimamente e quindi deve essere anche uno dei motivi per eliminare il termine di un anno per la variazione conseguente a errori di fatturazione. Specie di quelli generati dall’interpretazione dell’amministrazione finanziaria, come nel noto caso dell’Iva sulla Tia, Tariffa di igiene ambientale.

Questo articolo fa parte del Modulo24 Iva del Gruppo 24 Ore.

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