Sulla digital tax aliquota verso il raddoppio
L’ipotesi di portare il tributo al 6% per puntare a un incasso di 600 milioni
La «digital service tax» è materia da trattare con cura. Anche al ministero dell’Economia conoscono la delicatezza del dossier, da maneggiare con attenzione soprattutto mentre la presidente del Consiglio Giorgia Meloni al G20 di Bali era impegnata nel bilaterale con il presidente americano Biden. Il rischio di colpire gli interessi delle multinazionali del web e di dover sottostare a un nuovo fuoco di sbarramento a un rilancio della Web tax italiana è molto alto.
La storia recente ante pandemia, infatti, ha visto l’amministrazione Trump rilanciare sull’inasprimento dei dazi nei confronti non solo dell’Italia ma anche di altri Stati come Polonia, Portogallo, Spagna, Turchia e Regno Unito, per citarne alcuni che hanno introdotto una tassa sui servizi digitali. La tregua è arrivata solo dopo una lunga trattativa che ha visto gli Stati ragionare di comune accordo sull’introduzione di una digital minimum tax destinata a sostituire le differenti imposte digitali introdotte dai vari Paesi.
Ma alle regole internazionali e diplomatiche, che sul tema cambiano in modo molto relativo anche se la Casa Bianca ora è democratica, si contrappongono le esigenze di cassa e in particolare quelle di dover recuperare maggiori risorse da destinare al taglio delle tasse su imprese e famiglie.
Di qui l’idea di rilanciare la digital service tax introdotta con la legge di bilancio del 2019 ma entrata in vigore nel 2020 per tassare con un’aliquota del 3% i servizi pubblicitari veicolati su siti e social network, la profilazione di dati degli utenti, l’accesso alle piattaforme digitali e i corrispettivi percepiti dai gestori delle piattaforme. L’ipotesi sul tavolo dei tecnici è ora quella di raddoppiare l’aliquota passando quindi dal 3 al 6 per cento, con l’intento di portare a 600 milioni gli incassi oggi entrati nelle casse dello Stato e stimati tra i 270 e i 300 milioni di euro.
Nulla dovrebbe cambiare invece sui soggetti tenuti al pagamento della digital service tax. Si tratta delle attività di impresa che, nel corso dell’anno solare precedente a quello in cui è dovuta l’imposta, realizzano ovunque nel mondo, sia singolarmente sia a livello di gruppo, ricavi complessivi non inferiori a 750 milioni di euro. Se l’attività di impresa è svolta nel territorio italiano l’ammontare dei ricavi “digitali”, per definire i soggetti obbligati al versamento dell’imposta, scende a 5,5 milioni di euro.
Il rilancio della tassazione dei giganti del web, al di là delle difficoltà tecniche e del nuovo fuoco di sbarramento che potrebbe arrivare dagli States, era comunque nel programma elettorale del centrodestra. La scelta ora sembra quella di tornare sulla digital service taxes dopo aver battuto altre strade come quella di una tassa green sui veicoli inquinanti per la consegna dei prodotti acquistati in rete. Una tassa delivery pensata per colossi della rete come Amazon ma che alla fine avrebbe finito per colpire i piccoli trasportatori.
Nel rispetto delle regole attuali la digital service tax italiana, anche se elevata al 6%, continua a non applicarsi alla fornitura diretta di beni e servizi su piattaforme digitali, così come alla fornitura di beni o servizi ordinati attraverso il sito web del fornitore e a chi mette a disposizione dei clienti un’interfaccia digitale utilizzata per gestire i sistemi dei regolamenti interbancari.