Imposte

Attività all’estero, scorretto diluire i tempi del controllo

Sbagliato prescindere dai meccanismi di scambio d’informazione tra Paesi. L’ammenda pari al 150% della sanzione base viola il principio di proporzionalità

di Marco Piazza e Alessandro Savorana

Nel caso in cui l’inadempimento dell’obbligo di comunicare all’Amministrazione finanziaria le attività detenute all’estero comporti la presunzione che si tratti di redditi non dichiarati, l’eventuale allungamento del termine di accertamento non deve eccedere quanto necessario a garantire l’efficacia dei controlli fiscali.

Inoltre, in questi casi, l’applicazione di una sanzione pari al 150% della sanzione base viola il principio di proporzionalità.

Infine, anche l’applicazione di una sanzione forfettaria per la violazione dell’obbligo di comunicazione delle attività all’estero (nel caso 5mila euro per ogni dato o categoria di dati relativi a conti correnti, titoli o immobili) costituisce restrizione alla libera circolazione dei capitali se eccede la sanzione prevista dalla norma interna nei casi in cui il contribuente violi gli obblighi dichiarativi puramente formali.

Così la Corte di giustizia, con la sentenza C-788/19 del 27 gennaio 2022 (si veda “Il Sole 24 Ore” del 27 e del 31 gennaio), prende una posizione ancora più netta di quella proposta nel parere dall’Avvocato generale sul Modello 720 spagnolo corrispondente al Quadro RW italiano.

Le somiglianze fra la legislazione spagnola giudicata in conflitto con il diritto europeo e quella italiana sono evidenti. Anche in Italia - essendo presunto, come in Spagna, che le attività all’estero non indicate nel quadro RW siano costituite con redditi non dichiarati - il termine di accertamento viene prolungato, per l’esattezza, raddoppiato.

Il raddoppio si verifica per le attività detenute in Paesi a fiscalità privilegiata a prescindere dalla circostanza che partecipino ai meccanismi di scambio d’informazione e assistenza amministrativa operativi con l’Italia (in pratica che siano stati inclusi nel Dm 4 settembre 1996). Sotto questo aspetto l’articolo 12, comma 2-bis del Dl 78/2009 appare palesemente illegittimo. E, in effetti, alcuni Uffici delle imposte già ora applicano il raddoppio solo quando le attività sono detenute in Stati non collaborativi.

Allo stesso modo deve considerarsi sproporzionata la sanzione per le imposte evase in relazione ad attività non dichiarate detenute in Paesi a fiscalità privilegiata, dato che la norma spagnola è stata considerata illegittima per aver previsto una sanzione pari ad una volta e mezzo quella ordinaria mentre la norma italiana prevede il raddoppio.

Ma l’aspetto di maggior rilevo è la posizione della Corte nei confronti delle sanzioni dovute per il mancato adempimento dell’obbligo di informativa. La Spagna ha violato il Trattato per aver comminato sanzioni fisse significativamente maggiori delle analoghe sanzioni applicate internamente per l’omessa o tardiva presentazione della dichiarazione dei redditi in assenza di pregiudizio per l’erario.

Si tratta delle sanzioni di cui agli articoli 198 e 199 della legge tributaria spagnola (l’equivalente italiano è la sanzione da 250 euro a mille euro di cui all’articolo 1, comma 1, secondo periodo del Dlgs 471/1997 o quella di 250 euro di cui all’ultimo periodo del comma 4).

In Italia le sanzioni per chi non ha compilato il quadro RW (fino al 30%, ma in caso di rapporti cointestati o di delega di firma, la sanzione è comminata a tutti gli interessati) sono addirittura proporzionali e non sono commisurate all’imposta evasa, ma al valore delle attività non dichiarate.

La riflessione

Appare evidente che anche il nostro sistema deve essere profondamente riformato alla luce di questa sentenza, anche nella semplificazione del modello RW, riservando un completo obbligo informativo e mantenendo un regime repressivo, sia pur proporzionato, solo agli investimenti detenuti in Stati che non consentono un adeguato scambio d’informazioni.

Sull’incompatibilità delle sanzioni italiane per il monitoraggio fiscale l’Associazione italiana dei dottori commercialisti ha presentato alla commissione europea una specifica denuncia nel mese di dicembre del 2019. È pensabile che la sentenza della Corte di giustizia, dia nuovo impulso all’esame della denuncia.

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