Il CommentoDiritto

Il piano aziendale decide il finanziamento meritevole o abusivo

di Carlo Felice Giampaolino

Il 14 settembre è stata pubblicata la (seconda) sentenza della Corte di cassazione, la 24725, che risistema la materia del finanziamento all’impresa in crisi in un modo che si può dire equilibrato nel risultato, soprattutto se si eliminano alcuni orpelli argomentativi a mio parere infondati, e si presta attenzione a ciò che dice (si veda anche «Il Sole 24 Ore» del 15 settembre). La vicenda dell’abusiva concessione si è formata in modo totalmente incoerente e resiste alla razionalizzazione.

Nel 2006, la Cassazione a Sezioni unite, con collegio ed estensore autorevoli, aveva respinto la tesi, propugnata da un grande giurista (Galgano). L’azione voleva che le banche, praticamente tutto il sistema bancario italiano del tempo, risarcissero il curatore di Casillo Grani e delle altre società del gruppo per aver aggravato il dissesto e quindi il ricavo dei singoli creditori. La decisione era di estrema raffinatezza: il curatore non poteva chiedere per conto dei singoli ed era ben strano che il curatore volesse un risarcimento per atti volontariamente conclusi dalla società che rappresentava, che aveva concorso al proprio danno. In un’altra sentenza (Vitimec), con collegio anche autorevole, si seguiva la linea a parole e per dovere ma incidentalmente si suggeriva come proporre quell’azione in futuri giudizi e che veniva respinta in quello per ragioni processuali. La decisione, in apparente ossequio alle Sezioni unite, diceva che il curatore non poteva far valere il danno ai creditori ma poteva far valere il danno al patrimonio sociale (cioè non ai singoli), agendo per ottenere il risarcimento che sarebbe spettato alla società, per il depauperamento del patrimonio.

La parte della sentenza recente, che segue un’analoga di giugno, più interessante e davvero nomofilattica, cioè di impronta del sistema come deve essere interpretato dalle corti, è la seguente: prestare a un’impresa in crisi è lecito e atto di autonomia privata e parte di attività impresa, sia all’interno di procedura sia fuori dalle stesse; ciò che rileva, non è il fatto in sé che l’impresa finanziata sia in stato di crisi o d’insolvenza, pur noto al finanziatore: per configurare l’illecito quel che rileva è unicamente l’insussistenza di fondate prospettive, in base a ragionevolezza e a una valutazione ex ante, di superamento di quella crisi. In sostanza, sovente il confine tra finanziamento “meritevole” e finanziamento “abusivo” si fonderà sulla ragionevolezza e fattibilità di un piano aziendale”.

Con ciò si dice che prestare risorse a un’impresa in crisi non è un fatto illecito di per sé, cioè non ha nulla di ingiusto ma anzi è un fatto lecito, visto che la banca presta soldi a chi esercita attività di impresa. Nella struttura dell’illecito questo è un passo importante: percuotere qualcuno è illecito di per sè, salvo che dimostri che vi fosse una causa di esonero di responsabilità (ad esempio, legittima difesa, boxe). Invece, nel nostro caso, l’illecito non sarà mai prestare risorse, cioè la condotta è in principio lecita, ma prestare risorse sapendo o dovendo sapere che, secondo quanto prevedibile, esse non saranno restituite.

In secondo luogo, si dice che né l’esito infausto del finanziamento costituisce l’evento decisivo né la sola presenza di una procedura, come il concordato o l’accordo omologato, costituisce la scriminante. E su questo non c’è che da concordare.

Il pericolo però è nella possibile massima, ancora ad oggi non disponibile sul sito della Cassazione, e nel ragionamento fatto per arrivare al risultato.

Considerato che la sentenza non dice che prestare soldi a società che prolunga la sua attività sia un fatto illecito fonte di responsabilità, ogni conclusione che individui un tort nella concessione del credito è errata. Purtroppo, il riferimento chiave è quello dell’abuso, termine vago e destinato a cattive interpretazioni. Prolungare la vita di una società non configura l’illecito ma il prolungamento è artificiale e quindi illecito se esso avviene, in situazione di pericolo, senza cautelarsi con una prognosi sugli effetti dello stesso.

Va notato che il “superamento della crisi” non è dalla sentenza predicato in astratto ma in relazione alla ragionevolezza e fattibilità di un piano aziendale, cioè di un documento tecnico che affidi a terzi professionisti la prognosi del superamento. Nessuno finanzierebbe se il mancato superamento della crisi rilevasse come fatto ed integrasse un evento infausto per il quale debba rispondere.

Ma anche nel ragionamento per arrivare al risultato equilibrato vi è qualche insidia che potrebbe spingere chi userà questa importante decisione a forzarla.

In particolare, non è condivisibile porre in relazione il sistema di controllo sulle banche con una loro responsabilità verso il finanziato o i suoi creditori. L’ordinamento sezionale bancario trova il proprio fondamento nella protezione del risparmio: la banca deve prestare bene non per proteggere i creditori del finanziato o risarcirli ma per proteggere i suoi (i correntisti risparmiatori).

In secondo luogo, la “massa dei creditori”, come centro di imputazione di interessi, ed il diritto sul patrimonio del debitore, asseritamente leso dall’imprudenza della banca, rispondono a logiche dogmatiche di moltiplicazione, sinceramente superate. Sul piano processuale, la “massa dei creditori” vuole dire che il curatore sostituisce il singolo creditore che potrebbe svolgere azione revocatoria o surrogatoria perché il fallimento le concentra in capo al curatore. L’azione della massa è un fenomeno processuale. Ciò non vuol dire che c’è una persona in più nel mondo del diritto (la massa come centro di interessi).

Analogamente, il “danno anche collettivo al patrimonio d’impresa” è inspiegabile: o si aggiunge una situazione giuridica soggettiva al debitore, della quale non si sente il bisogno (il diritto sul patrimonio), o la si aggiunge al creditore (ma allora sarà di ciascuno e non di tutti insieme), oppure è semplicemente un danno al patrimonio sociale, per far valere il quale il curatore sta al posto della società.