Imposte

Importazioni, detraibilità Iva ridotta per i soggetti non proprietari dei beni

La Corte di giustizia Ue definisce il servizio di lavorazione svolto da un soggetto Ue su beni di proprietà di un terzo e provenienti da Paesi extra Ue

di Ettore Sbandi

Non è detraibile l’Iva all’importazione corrisposta da un lavorante e afferente beni di cui questi non è proprietario, né per i quali ha corrisposto il relativo costo. L'imposta infatti rientra nel volume Iva del soggetto che provvede alle formalità doganali solo se di pertinenza dell'attività economica dello stesso operatore.

Con queste conclusioni la Corte di giustizia Ue ha deciso, con l’ordinanza C-621/19, un recente caso sollevato dalle autorità della Slovacchia, con effetti che, seppure confermano una linea di principio ormai generalmente accolta in materia di Iva (ossia che l’imposta è di pertinenza del soggetto che dispone del bene su cui insiste il tributo, come titolare di un diritto di proprietà o simile), nel caso delle lavorazioni può avere impatti estremamente rilevanti.

Forse per la prima volta, infatti, viene espressamente regolamentato e definito, ai fini impositivi, il servizio di lavorazione svolto da un soggetto Ue su beni di proprietà di un terzo e provenienti da Paesi extra Ue, negando al primo operatore il diritto alla detrazione dell’imposta, seppure questi ne sia debitore in dogana.

Nel caso specifico, una società slovacca aveva importato merci da paesi extra Ue al fine di ricondizionarle, dunque per eseguire interventi di lavorazione per conto di terzi committenti; i beni venivano dunque importati dall’operatore Ue e, dunque, assolvevano l’imposta in dogana.

Ai sensi della disciplina interna, come del resto avviene anche in Italia, l’Iva era infatti divenuta esigibile nei confronti della Società quando le merci in questione sono state immesse in libera pratica, nel momento dunque dello sdoganamento, assolto quale tributo Iva di confine e riscosso secondo le modalità proprie dell’obbligazione doganale.

Una volta riconfezionate, le merci sono state consegnate in altri Stati membri o esportate in paesi terzi e il relativo servizio di riconfezionamento è stato, come tale, fatturato al cliente finale, vale a dire una società extra Ue che ha mantenuto la proprietà della merce in questione per tutto il periodo.

È stata dunque pagata l’Iva in dogana dalla Società che ne ha invocato il diritto a detrazione applicabile ai sensi della locale legge sull’Iva; quanto precede, nell’assunto (o il convincimento) che all’Iva pagata per un obbligo di legge dovesse necessariamente corrispondere una Iva parimenti detraibile, in ossequio al principio della neutralità dell’imposta.

Questo diritto è stato negato dalle autorità slovacche e, poi, dalla Corte di Giustizia, che ancora una volta, nel caso specifico forse più chiaramente che altre volte, ha negato la soluzione che apparentemente poteva apparire quella più semplice e immediata, per la quale i beni in importazione sono oggetto dell’attività di impresa di un lavorante, manutentore, terzista, ecc.., e dunque la relativa Iva d’importazione deve poter essere detratta.

La Corte ha infatti chiarito che il diritto a detrazione sussiste solo nella misura in cui i beni importati sono utilizzati ai fini di operazioni imponibili dal soggetto passivo persona e tale condizione è soddisfatta solo quando il costo dei servizi a monte è incorporato nel prezzo di determinate operazioni a valle o nel prezzo dei beni o servizi forniti dal soggetto passivo nell’esercizio delle sue attività economiche.

Pertanto, le condizioni di applicazione dell’articolo 168, lettera e), della direttiva Iva nel caso esaminato non sono soddisfatte, perché deve sempre essere rispettato il seguente principio: le persone che importano merci senza esserne proprietari non sono in grado di beneficiare del diritto alla detrazione dell’Iva, salvo poter stabilire che il costo dell’importazione è incorporato nel prezzo di particolari operazioni a valle o nel prezzo di beni o servizi prestati dal soggetto passivo nell’esercizio della sua attività economica.

L’effetto della decisione, per la verità sulla linea di altre analoghe precedenti, è che, per esempio nei casi di lavorazione, l’Iva è dovuta e non detraibile, perdendo dunque il suo carattere di neutralità, con rilevante impatto per tutti gli operatori unionali che svolgono servizi per conto di terzi su beni da essi stessi importati.

L’Iva è infatti dovuta all’importazione, per il solo fatto di manifestarsi il presupposto dell’ingresso del bene nel sistema interno, a prescindere da chi sia l’importatore ovvero, per dirla ai sensi dell’articolo 1 del Dpr 633/1972, da chiunque effettuata; eppure, essa non è detraibile da chiunque, neppure se questo soggetto sta agendo in veste di impresa, nell’esercizio proprio della sua attività, nel quadro delle sue operazioni tipiche (come quelle di un toller o lavorante, che esegue le sue prestazioni di servizi per conto terzi).

Gli effetti sono dirompenti soprattutto per alcuni settori industriali: se infatti i soggetti lavoranti non possono detrarre l’Iva all’importazione sui beni di cui non sono proprietari, né per i quali hanno corrisposto il relativo costo, è evidente che il modello da questi adottato può risultare del tutto inefficiente perché comporta il pagamento di un tributo che, al più, sarà deducibile, ma non detraibile, al pari insomma di un dazio.

È il caso, ovviamente, dei prestatori di servizi di lavorazione o manutenzione specialistici, ovvero di toller e manufacturer di alcuni modelli fiscali in uso per gruppi multinazionali, che potrebbero restare incisi da un tributo pagato in importazione e che pure non è detraibile; è il caso cioè di tutti quei soggetti che non vantano, sui beni oggetto del tributo, una relazione civilistica di proprietà, che non possono cioè disporne come proprietari (o titolare di altro simile diritto).

Di contro, sono esclusi dal principio in questione i soggetti che operano nel quadro di un contratto di consignment stock, perché l’operazione di importazione nasce ab initio come destinata a un trasferimento proprietà differito nel tempo, e forse anche per il noleggio (cfr. risposta a interpello 6/2019 dedicata però ai soli pallets); come a dire che il regime finalistico del tributo consente di anticipare i relativi effetti a un momento precedente (import) a quello di disponibilità del bene (post import), purché questo secondo momento di disponibilità sia già convenuto e dimostrabile.

La strada da prediligere per evitare gli effetti della decisione della Cgue resta quella del ricorso a regimi sospensivi o comunque speciali, che per le lavorazioni si sostanzia nel perfezionamento attivo. Con questo regime il soggetto che effettua operazioni di lavorazione può importare merci extra Ue in sospensione, per poi poter riesportare i beni lavorati senza essere gravati da dazi e Iva.

Il dubbio è, tuttavia, relativo all’accesso al regime, in alcuni casi negabile per merci senza dazio, oppure in generale per assenza di condizioni economiche. Per tutte queste ipotesi, infatti, il regime è carente di interesse o condizioni a esso propedeutiche e, dunque, non può essere riconosciuto dall’autorità doganale, tornando dunque il problema al punto di partenza.

Si rammenta che, parallelo a questo regime, vi è quello della temporanea importazione, che tuttavia genera obblighi Iva e, soprattutto, non può essere accesa per operazioni di lavorazione, ma solo per utilizzi di un bene (per esempio, prove tecniche, controllo qualità, impiego limitato, eccetera).

Oltre a ciò, è bene valutare la possibilità per il committente di identificarsi nel territorio, per evitare la "sanzione" di indetraibilità che ora la Cgue riserva al lavorante e per avere un assetto maggiormente compliant ai fini Iva, pur potendosi congegnare qualche forma di meccanismo di operatività all’import, da parte del lavorante, per conto di terzi, per accedere alla detrazione.

Questo articolo fa parte del Modulo24 Iva del Gruppo 24 Ore.

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