Imposte

Extraprofitti, fino a 11mila imprese nel raggio d’azione del contributo

Per l’Ufficio parlamentare di bilancio la base imponibile è influenzata dal confronto con un periodo di crisi. Non ci sono rischi di legittimità costituzionale. Resta il nodo indeducibilità<br/>

di Gianni Trovati

Sono circa 11mila le imprese dell’energia chiamate a fare i conti con il contributo straordinario sugli extraprofitti con cui il governo punta a raccogliere 10,5 miliardi. Naturalmente per una quota rilevante delle aziende più piccole scatterà la clausola che blocca il contributo quando l’aumento dell’imponibile Iva non raggiunge i 5 milioni di euro. Ma nei calcoli entrano una serie di variabili che non sono direttamente collegate ai profitti effettivi, e introducono fattori di casualità complicando le previsioni sulla platea effettiva.

Numeri e caratteristiche del contributo straordinario sono al centro dell’analisi proposta dall’Ufficio parlamentare di bilancio nell’audizione in Senato sul decreto Aiuti, che ha fatto lievitare il contributo portando l’aliquota al 25% e allargando la base di calcolo al mese di aprile. Da qui arrivano 6,5 dei 10,5 miliardi di gettito stimato.

Nell’immaginario il contributo solidale è chiesto solo ai colossi dell’energia che hanno visto gonfiarsi il conto economico in questi mesi di inflazione alle stelle. Ma la platea disegnata dalla norma comprende tutte le società che compongono le filiere di produzione, importazione e distribuzione di elettricità, gas e carburanti; in un orizzonte che nei calcoli Upb comprende appunto poco meno di 11mila imprese. Com’è ovvio, in termini economici il peso si concentra nella minoranza di aziende maggiori: quelle con più di 50 dipendenti sono l’1,2% del totale, ma cumulano il 50% della base imponibile Ires e il 70% del valore aggiunto complessivo.

Nei conti sul contributo, si diceva, entrano molti fattori. Il primo è quello che evita il pagamento quando l’aumento della base imponibile Iva, assunta come misura dell’extra-profitto, è inferiore al 10% e a 5 milioni di valore rispetto al periodo di riferimento; soprattutto questo secondo aspetto è destinato a esentare i più piccoli.

Ma l’analisi dell’Autorità parlamentare di bilancio mette in evidenza una serie di snodi critici che possono colpire «in termini di equità e di efficienza» della misura.

In gioco secondo l’Upb non ci sono i rischi di legittimità costituzionale che a suo tempo colpirono la Robin Tax, perché anche alla luce di quella esperienza il contributo straordinario è concepito come una tantum collegata a un’eccezionalità congiunturale che secondo la stessa sentenza 10/2015 della Consulta sulla Robin Tax può giustificare un prelievo straordinario. Sul punto, l’indeducibilità da Ires e Irap resta un aspetto delicato. Insieme ai problemi nel meccanismo di calcolo.

Il primo, conferma l’Upb, è nella base imponibile rappresentata dal saldo Iva, che non identifica solo i profitti perché «include la remunerazione degli altri fattori della produzione». Ad ampliare le differenze rispetto al profitto vero e proprio civilistico o fiscale concorrono molti fattori, dagli «ammortamenti alla presenza di proventi o costi relativi a operazioni finanziarie o di riorganizzazione aziendale».

Rientrano, tra l’altro, le accise. Le accise sono fra le operazioni attive e, sottolinea l’Upb, «se si verifica un aumento delle quantità vendute, la maggiore accisa incassata genera un ampliamento della base imponibile del contributo» straordinario. Ma questa accisa, dettaglio non trascurabile, viene versata allo Stato; le società si vedono quindi calcolare un pezzo di base imponibile su somme che girano all’Erario.

Ma l’incognita più delicata in fatto di proporzionalità del contributo chiesto a ogni impresa rispetto all’aumento effettivo dei margini prodotto dall’inflazione è nel periodo di riferimento rispetto al quale questo aumento si calcola. Per misurare il contributo, bisogna infatti mettere a confronto il saldo Iva di ottobre 2021-aprile 2022 con lo stesso periodo di 12 mesi prima. L’idea è quella di misurare l’incremento rispetto a una fase “normale”: ma l’inverno 2020-21, falcidiato dalle ondate Covid combattute a suon di restrizioni in attesa del decollo dei vaccini non è esattamente un periodo normale. Lo dimostrano i dati della fatturazione elettronica messi in fila dall’Upb: tra ottobre 2020 e gennaio 2021 il fatturato dell’energia ha viaggiato fra il -21% e il -25% rispetto a 12 mesi prima, ancora a febbraio era intorno al -20% e la normalizzazione vera è arrivata ad aprile: quando infatti, secondo gli stessi calcoli del governo, l’imponibile quasi si dimezza, fermandosi a 3,6 miliardi contro i 6,6 miliardi di media mensile del semestre precedente.

Tra le alternative suggerite dall’Authority c’è il confronto con l’inverno precedente, o quantomeno con una media di 2019/20 e 2020/21: ma siccome a guidare le danze è l’esigenza di gettito, questo imporrebbe un aumento dell’aliquota che potrebbe migliorare la distribuzione del contributo ma sarebbe complicato da gestire politicamente.

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