Controlli e liti

Omesso versamento delle imposte, la causa di forza maggiore deve risultare dagli atti

Per la Cgt del Lazio non basta il mancato incasso da due fornitori se la società contribuente non ha tentato di ottenere credito e se il suo collegio sindacale non ha evidenziato carenze di liquidità

di Ivan Cimmarusti

Il mancato versamento delle imposte per «causa di forza maggiore» deve risultare negli atti del procedimento. Viceversa, l’impresa contribuente dovrà assolvere gli obblighi tributari.

Così ha deciso la Corte di giustizia tributaria di II grado del Lazio (sentenza dell’11 aprile 2023 n. 2060/8), a conferma della decisione del I grado. Secondo i giudici d’appello «non è configurabile la “forza maggiore”, pur affermando la società di aver preferito privilegiare il pagamento degli stipendi dei dipendenti e assicurare così la continuità aziendale, quale causa di inadempimento dell’obbligazione tributaria e conseguente pretesa di far derivare tout court lo stato di insolvenza dai ritardi nel pagamento dei propri debiti dai principali committenti».

Il caso

Il contenzioso nasce dopo che la società ricorrente ha impugnato un avviso bonario con il quale l’Agenzia ha invitato la parte a versare una somma «quale omesso versamento di Iva liquidata a debito», oltre a sanzioni e interessi.

L’azienda, da parte sua, ha ritenuto di non dover saldare il debito tributario per «causa di forza maggiore», come previsto dall'articolo 6 del Dlgs 472/97 («Non è punibile chi ha commesso il fatto per forza maggiore»). In particolare, ha spiegato di non aver potuto adempiere agli obblighi per ritardi nei pagamenti vantati verso altre due società, peraltro a controllo pubblico.

La decisione del primo grado

Con sentenza n. 2031/19 la Ctp di primo grado ha riconosciuto il danno causato dalla mancata riscossione dei crediti verso le due grandi aziende, tuttavia ha spiegato che «non vi è alcuna documentazione da cui si evince che il mancato pagamento delle imposte è dovuto al mancato pagamento delle fatture emesse nei confronti delle due società e che non è stato possibile altrimenti reperire le risorse economiche e finanziarie necessarie per consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie».

Inoltre, i giudici hanno aggiunto che nella nota integrativa del bilancio l’organo di controllo, cioè il collegio sindacale, non ha espresso allarme per la situazione finanziaria dovuta al mancato incasso.

Pertanto, «la Commissione rigetta il ricorso e dichiara che il mancato pagamento delle imposte non è dovuto alla invocata causa di forza maggiore ma a motivi che esulano l’applicazione dell’articolo 6 del Dlgs n. 472/97».

L’impugnazione

Contro questa sentenza, la società ricorrente ha proposto impugnazione, segnalando che «i due principali clienti versano in procedure concorsuali (l’una in concordato preventivo, l’altra in amministrazione straordinaria), sicché i pagamenti delle fatture emesse avvengono con grandissimo ritardo. Da tanto sarebbe derivata la crisi di liquidità che avrebbe afflitto la società appellante». Ha aggiunto che «a fronte di tale situazione la società avrebbe pertanto preferito privilegiare il pagamento degli stipendi dei dipendenti, assicurando così la continuità aziendale».

A sostegno di ciò, la ricorrente ha specificato che «negli ultimi anni la società non si è sottratta al pagamento delle imposte e non ha alcuna iscrizione a ruolo, ma ha proceduto a rateizzare gli avvisi bonari, pagando anche sanzioni ed interessi». Un modo, dunque, per richiamare «vari precedenti di merito – si legge nei documenti del processo – e di legittimità».

La decisione del secondo grado

I giudici dell’appello hanno spiegato che «a fronte di tali osservazioni e di tali avvisi, la società appellante avrebbe dovuto dare dimostrazione che era risultato vano ogni tentativo di reperire per tempo nuove linee di credito o nuove risorse finanziari».

Hanno aggiunto che «in difetto di ogni concreta dimostrazione o allegazione in tal senso, il solo fatto del mancato tempestivo pagamento delle imposte a fronte di una temporanea mancanza di adeguata liquidità, essendo stata destinata quella disponibile alla continuità aziendale piuttosto che al soddisfacimento dei crediti dell’Erario, non può integrare l’esimente in questione (Cassazione civile Sezione V, 22 settembre 2017, n. 22153).

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