Riforma penale, inappellabilità anche per omessa dichiarazione
Il disegno di legge Nordio limita il potere del pm su reati fino a 6 anni di pena. Tra i delitti interessati anche la truffa aggravata e le lesioni personali
Ritorna l’inappellabilità del pm contro le assoluzioni. E tuttavia non per la generalità dei reati, ma solo per quelli soggetti a citazione diretta. Questo prevede il disegno di legge di riforma penale approvato giovedì sera dal Consiglio dei ministri, dove la limitazione dei reati inappellabili accompagnata dai limiti al potere di appello dell’imputato hanno fatto ritenere al ministero della Giustizia di muoversi secondo le indicazioni fornite dalla Corte costituzionale nel 2007, con la sentenza che dichiarò l’illegittimità della legge Pecorella.
Allora, tra le ragioni della bocciatura della inappellabilità, trovarono posto sia l’estensione totalizzante della misura, applicabile a tutti i reati senza distinzioni, sia lo sbilanciamento ai danni di una sola delle parti processuali, la pubblica accusa.
Oggi, ricordato che una forma di inappellabilità era prevista anche dalla Commissione Lattanzi, a monte del disegno di legge ci sono gli effetti della riforma del processo penale, in vigore da pochi mesi, a cambiare la prospettiva. In particolare a essere esteso è il catalogo dei reati a citazione diretta, con limite di pena che passa da 4 a 6 anni per un buon numero di reati, e a venire limitati sono alcune possibilità di impugnazione dell’imputato.
Nell’ottica del legislatore, così, il catalogo di cui all’articolo 550 del Codice di procedura penale che disciplina, appunto, i casi di citazione diretta a giudizio riguarda reati di contenuta gravità che sarebbero, peraltro, caratterizzati da un più agevole accertamento processuale.
In questo modo, si legge nella Relazione accompagnatoria, sarebbe quindi garantita la coerenza sistematica, restando impugnabili tramite appello «le decisioni di assoluzione per i reati più gravi, compresi tutti quelli contro la persona che determinano particolare allarme sociale, tra i quali sono ricompresi i reati cosiddetti da codice rosso».
Così argomentato, l’intervento non convince fino in fondo. In primo luogo, infatti, non tutti i reati in relazione ai quali si procede con citazione diretta a giudizio risultano essere di agevole accertamento dal punto di vista istruttorio o di scarso allarme sociale. Alcuni esempi: le lesioni personali, gravi o gravissime, anche in caso di violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o della disciplina sulla circolazione stradale; alcune fattispecie di truffa aggravata; il reato di omessa dichiarazione dell’imposta sui redditi o sul valore aggiunto, laddove essa sia superiore a cinquantamila euro. In altre parole, siamo davanti a scelte politiche che, seppur pienamente legittime, dovrebbero essere meglio argomentate.
In secondo luogo, poi, la limitazione dell’inappellabilità delle sentenze di assoluzione da parte del pubblico ministero ai soli casi di citazione diretta a giudizio sembra creare un (ennesimo) doppio binario all’interno del nostro sistema processuale che trova difficile una sua giustificazione razionale e sistematica.
Forse, a questo punto, si sarebbe potuta cogliere l’occasione per riconoscere che l’inappellabilità del proscioglimento da parte della pubblica accusa risponde all’esigenza di rimediare ad una reale anomalia del nostro sistema delle impugnazioni.
Ovvero l’oggettiva asimmetria tra il condannato in prima istanza che ha di fronte a sé due ulteriori gradi di giudizio e il soggetto condannato per la prima volta innanzi al giudice d’appello, il quale vede ristretto il proprio diritto all’impugnazione avendo quale unico mezzo il ricorso per Cassazione.