Controlli e liti

Amministratore di fatto, serve la prova rafforzata

Va dimostrato che la società svolge una funzione servente al dominus; nel mirino emissione e utilizzo di fatture per operazioni inesistenti

di Dario Deotto e Luigi Lovecchio

Ai fini dell’irrogazione della sanzione tributaria all’amministratore di fatto di una società di capitali non basta la circostanza che la società abbia utilizzato fatture per operazioni inesistenti. Occorre invece la prova che la società svolga una funzione passiva, meramente servente all’utilità ricavata dall’amministratore. Il principio di diritto è stato affermato dalla Corte di cassazione, nella sentenza n. 1946, depositata il 23 gennaio.

La questione involgeva una contestazione di emissione e utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. In particolare, si era in presenza di una società cartiera, a monte, che aveva emesso delle fatture soggettivamente inesistenti utilizzate a valle da una società, della quale era stato ritenuto amministratore di fatto il signor XY, ricorrente in Cassazione. L’ufficio dell’agenzia delle Entrate, sulla base delle circostanze rappresentate, per un verso, dall’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti da parte della società rappresentata, e, sotto altro profilo, dalla qualificazione come amministratore di fatto del signor XY, ha ritenuto di potere irrogare la sanzione tributaria, in solido, tanto alla società che all’amministratore di fatto.

La Corte di cassazione ha al riguardo ricordato che, ai sensi dell’articolo 7 del Dl 269/2003, per le violazioni imputabili a enti dotati di personalità giuridica, quali le società di capitali, la sanzione è irrogabile unicamente all’ente. Questo in espressa deroga al principio di personalità dell’autore della violazione, sancito nell’articolo 11 del Dlgs 472/1997. Tale criterio, ricorda sempre la Corte, perde tuttavia efficacia ogni qualvolta l’amministratore di società abbia agito per perseguire i propri personali interessi, di modo che la violazione commessa abbia prodotto benefici o utilità a suo favore, e non a favore dell’ente rappresentato. Ciò accade, normalmente, nelle ipotesi degli amministratori di società cartiere, nelle quali non è ravvisabile una effettiva sostanza economica. Tali società, infatti, si risolvono in un mero strumento fittizio attraverso il quale il dominus o amministratore di fatto consegue dei profitti illeciti.

Lo stesso però non vale di fronte a una società che utilizza fatture per operazioni inesistenti che ben potrebbe avere una sua vitalità. Né può ritenersi sufficiente il fatto che attraverso le fatture contestate la società acquirente abbia conseguito, secondo la Corte, degli indebiti risparmi d’imposta, atteso che questa è una connotazione inevitabile dell’illecito in questione che, di per sé, tuttavia non prova la fittizietà della società. Tutt’al contrario, il vantaggio fiscale eventualmente ottenuto dal soggetto partecipato potrebbe dimostrare che l’amministratore di fatto abbia agito a beneficio della società, e non personale. La Cassazione rileva pertanto che l’amministrazione finanziaria deve provare, anche attraverso presunzioni, che la società non sia «vera» o che rappresenti uno strumento artificioso costruito al solo scopo di dissimulare i reali interessi del dominus.

Osserva da ultimo la Cassazione come la condotta dell’Ufficio appaia altresì insanabilmente contraddittoria, rispetto alla tesi sostenuta, nella parte in cui esso irroga la sanzione, in via solidale, tanto alla società che all’amministratore di fatto. Ed invero, delle due l’una: o la società è fittizia, poiché l’unico contribuente è l’amministratore, ed allora la stessa non può essere sanzionata, oppure la società è “viva” ma allora non si può sanzionare l’amministratore di fatto.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©