Imposte

Beni d’impresa, l’affrancamento delle riserve si calcola solo sul saldo attivo iscritto in contabilità

La sentenza 11326/2020 della Cassazione: nella base imponibile non va inclusa l’imposta sostitutiva versata

di Stefano Mazzocchi

Tra le tante incertezze applicative sull'affrancamento delle riserve da rivalutazione dei beni d'impresa, spicca la questione sulla determinazione della base imponibile, ai fini del calcolo dell'imposta sostitutiva dovuta, nel caso in cui si opti per l'affrancamento. La sentenza 11326/2020 della Cassazione ha sancito, in modo definitivo, la modalità di calcolo: i giudici di legittimità affermano che la base imponibile è costituita solo dall'importo del saldo attivo di rivalutazione iscritto in contabilità senza includere l'imposta sostitutiva versata per la rivalutazione dei beni nell'attivo patrimoniale dell'impresa.

La querelle interpretativa scaturisce dall'incertezza creatasi con l'emanazione della circolare 18/E/2006 in cui si equiparavano, in modo indifferente, le modalità di calcolo delle basi imponibili sia nel caso di distribuzione ai soci della riserva da rivalutazione non affrancata sia nel caso, invece, di affrancamento della medesima riserva al momento della sua rilevazione nel passivo, a contropartita dei beni rivalutati nell'attivo. In sostanza, la tesi sostenuta dall'Agenzia porterebbe a non rilevare «la circostanza che la riserva venga iscritta in bilancio al netto dell'imposta sostitutiva considerata». Per la Cassazione, invece, la base imponibile è costituita esclusivamente dall'ammontare rilevato nel patrimonio netto come riserva da rivalutazione che risulterà identica alla sommatoria dei maggiori valori dei beni rivalutati, iscritti all'attivo patrimoniale.

La Suprema corte, quindi, afferma che non sia possibile un'assimilazione giuridica fra il presupposto impositivo stabilito per l'eventuale smobilizzo a favore dei soci della riserva da rivalutazione non affrancata ab initio con invece l'eventuale affrancamento iniziale della riserva da rivalutazione, contestualmente alla sua iscrizione in bilancio. A tal proposito, non deve essere trascurata la necessità di ben ponderare i maggiori valori da iscrivere, specie per i beni immateriali, nel caso in cui lo stesso bene o intangibile sia oggetto, a distanza di pochi anni, di plurime e ripetute rivalutazioni tramite le leggi speciali che si sono succedute, specie in questi ultimi tempi. Infatti, non è da escludere che uno stesso bene, un tempo rivalutato e successivamente ammortizzato nel tempo, non possa esprimere nuovamente un maggior valore da rivalutare.

Su questo tema è intervenuta ancora la Cassazione (28173/2017) che ha affermato che può «essere plausibile un incremento del valore d'uso del bene» già in precedenza rivalutato ma a condizione che vi siano state delle «migliorie o eventuali situazioni di mercato più favorevoli», atte a modificarne nuovamente la sua iscrizione contabile. In pratica, è necessario affinché siano riconosciuti gli ulteriori incrementi dei valori degli assets che l'imprenditore espliciti i «criteri effettivamente utilizzati» a fondamento dell'asserito maggior importo, senza dimenticare che per le immobilizzazioni materiali è necessario includere tutti i cespiti appartenenti alla stessa categoria omogenea.

La mancata esplicitazione del criterio è motivo sufficiente per disconoscere la rivalutazione operata perché non permetterebbe di identificare le tecnicalità poste alla base dei nuovi valori che in nessun caso devono «superare i valori effettivamente attribuiti ai beni con riguardo alla loro consistenza, alla loro capacità produttiva, all'effettiva possibilità di economia o utilizzazione dell'impresa nonché ai valori correnti e alle quotazioni rilevate in mercati regolamentati italiani o esteri».


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