Controlli e liti

Concordato, rischio Iva sui debiti «ridotti»

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di Giulio Andreani

Si discute da tempo di quali siano, per l’impresa in concordato preventivo o in accordo di ristrutturazione debiti o in piano attestato di risanamento, gli effetti dell’emissione, da parte di che le aveva fornito beni o servizi soggetti a Iva, di una nota di variazione ai fini di tale tributo, per mancato pagamento, totale o parziale, del corrispettivo della fornitura. Con due risoluzioni del 2001 (155/E e, soprattutto, 161/E), l’agenzia delle Entrate aveva escluso che l’emissione della nota, nonostante consentisse al creditore cedente di recuperare l’Iva non percepita, comportasse per il cessionario o committente in concordato preventivo l’insorgere di un corrispondente debito verso l’erario. Ma, con alcuni recenti avvisi di accertamento, una direzione provinciale dell’agenzia ha contestato a un’impresa in concordato preventivo l’omessa rilevazione di un debito verso l’erario pari all’Iva risultante dalle note emesse dopo che l’omologazione del concordato aveva comportato il pagamento solo parziale delle forniture.

La tesi dell’Agenzia, che se si diffondesse renderebbe più onerosi tutti i risanamenti aziendali, pur trovando qualche appiglio nelle contraddittorie modifiche all’articolo 26 del Dpr 633/1972 dopo le leggi di bilancio 2016 e 2017, non pare corretta per tre motivi.‎

L’emissione della nota di variazione su un credito sorto prima della procedura (o dell’accordo) non può comportare per il debitore (cessionario o committente) un debito verso l’erario, perché per l’articolo 184 della Legge fallimentare il concordato omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori alla procedura e l’effetto esdebitatorio che ne deriva interessa anche l’Iva. Ciò posto, il debito preesistente, in quanto estinto con l’omologazione del concordato, non può dar vita a un altro debito di pari importo; è vero che esso sorgerebbe verso un altro soggetto (l’erario e non il fornitore), ma c’è connessione oggettiva.

‎L’articolo 185 della direttiva 2006/112/CE prevede che la rettifica della detrazione Iva «non è richiesta in caso di operazioni totalmente o parzialmente non pagate», pur consentendo agli Stati Ue di esercitare tale rettifica, in deroga a detto principio. Questa disposizione va interpretata in base ai criteri statuiti dalla Corte di giustizia Ue, secondo cui le deroghe ai princìpi generali (nel caso di specie, a quello della non obbligatorietà della rettifica alla detrazione) vanno applicate con ragionevolezza. Ciò posto, la possibilità degli Stati di pretendere la rettifica della detrazione ha senso finché il debitore ha in concreto la capacità di sostenere l’onere che ne deriva e, con riguardo a un soggetto insolvente, una simile pretesa non è affatto ragionevole.

Sarebbe incoerente una norma che da un lato concede al creditore di un’impresa insolvente - per non penalizzarlo - di recuperare l’Iva versata per un credito poi non integralmente percepito e dall’altro impone al debitore insolvente di versare all’erario l’Iva non pagata grazie al concordato, penalizzando l’impresa in crisi.

In assenza di un intervento risolutivo del legislatore, contestazioni potrebbero essere estese ai numerosi concordati e accordi di ristrutturazione approvati negli ultimi anni.

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