Controlli e liti

Crediti d’imposta, confine labile tra inesistenza e non spettanza

Le Entrate tornano sui controlli, in particolare sugli investimenti in R&S. Pene più severe sulla prassi di contestare il credito inesistente

di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

Secondo le indicazioni fornite dalle Entrate nella circolare 31/2020, qualora sia accertato che le attività/spese sostenute non consentano di fruire del credito d’imposta ricerca e sviluppo si configura sempre un’ipotesi di utilizzo di un credito «inesistente» per carenza totale o parziale del presupposto costitutivo.

I chiarimenti sono importanti in quanto nell’ultimo periodo l’agenzia delle Entrate contesta spesso l’utilizzo di crediti inesistenti per lo più derivanti dagli investimenti in ricerca e sviluppo effettuati dalle imprese. Nel nostro ordinamento esiste una rilevante distinzione tra crediti inesistenti e crediti non spettanti, essendo previste sanzioni sia amministrative sia penali a seconda dell’ipotesi.

Sotto il profilo tributario, in presenza di credito inesistente la sanzione va dal 100 al 200%, se non spettante è del 30%. In ambito penale, invece, i crediti inesistenti sono puniti con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni. Per i crediti non spettanti la reclusione va da sei mesi a due anni e, in caso di versamento del dovuto prima dell’apertura del dibattimento, è prevista la non punibilità (si veda l’articolo qui sotto). È pertanto evidente che l’individuazione dell’una o dell’altra fattispecie (inesistente o non spettante) è rilevante sia per le conseguenze, sia per la difesa del contribuente soprattutto in ambito penale dove è prevista una pena massima fino a 6 anni di reclusione.

La circolare, purtroppo, conferma una prassi già abbastanza diffusa presso tutti gli uffici: in ipotesi di compensazione ritenuta indebita e derivante dagli incentivi di ricerca e sviluppo, quasi automaticamente viene contestato l’utilizzo di credito inesistente. Così, anche meri errori di calcolo commessi nella determinazione del credito R&S iniziale (somma algebrica errata, riporto sbagliato di alcuni saldi ecc.) viene considerato inesistente. Addirittura, nella circolare si evidenzia che la contestazione di «credito inesistente» per gli investimenti in ricerca e sviluppo può derivare anche in base ad «autonome valutazioni» dei verificatori sebbene relative a situazioni caratterizzate da un grado di tecnicismo elevato.

Ne consegue che i verificatori, pur se privi in molti casi, di idonee conoscenze tecniche sull’utilità o meno ad esempio degli specifici processi per la realizzazione di un determinato prodotto, o della valenza dei risultati di determinate analisi di laboratorio o dell’inserimento di un componente chimico in una sostanza, sono autorizzati a disconoscere una o più spese in quanto - a loro parere - manca il requisito della novità o le attività svolte siano irrilevanti per la realizzazione del bene finale.

Tale perentoria posizione lascia perplessi perché una contestazione fondata su presunzioni, prive di conoscenze tecniche, non solo ha risvolti finanziari particolarmente gravi (restituzione del credito oltre sanzioni dal 100 al 200%) ma il contribuente rischia anche la reclusione fino a 6 anni. Certamente in sede processuale, l’interessato potrà far valere le proprie ragioni, ma dovrà, comunque, affrontare un giudizio (ed i relativi costi).

Peraltro, il delineato contesto potrebbe trovare applicazione anche per i recenti incentivi - molti dei quali sottoforma proprio di crediti di imposta - introdotti per favorire la ripresa economica conseguente all’emergenza sanitaria. È il caso del superbonus del 110% o altri similari, per i quali gli uffici, in analogia alle direttive impartite con la circolare 31/2020, potrebbero contestare automaticamente l’utilizzo di un credito inesistente. In presenza infatti di situazioni ritenute non suscettibili di fruire del previsto bonus (nonostante gli acquisti e gli investimenti siano stati realmente sostenuti), le contestazioni dei verificatori, al pari di quanto sta avvenendo con i crediti R&S, rischiano di sfociare sempre nell’utilizzo di crediti inesistenti.

Fermo restando che gli abusi debbano essere puntualmente perseguiti, sarebbe auspicabile che gli ispettori partano dal presupposto che non necessariamente il contribuente (impresa o privato che sia) abbia commesso scientemente degli illeciti. Occorrerebbe che per una così grave contestazione (qual è l’inesistenza), sia preliminarmente riscontrata l’artificiosità e la fraudolenza volta ad ottenere i vantaggi indebiti.

Appare ragionevole in sostanza che in caso di effettiva esistenza dell’investimento, eventuali errori di calcolo o differenti valutazioni tecniche, non sfocino in violazioni penali così gravi. Altrimenti la sistematica classificazione di credito inesistente operata dai verificatori rischia di trasferire in capo alle Procure la verifica della sussistenza o meno di elementi in tal senso, rimettendo alle valutazioni dell’autorità giudiziaria non le situazioni dolose meritevoli di repressione, ma le conseguenze della mancata assunzione di responsabilità dei controllori.

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