Imposte

Crediti deteriorati, il costo del servizio è esente da Iva

L’interpretazione delle Entrate presuppone una prestazione finanziaria. La natura dell’operazione merita un’analisi caso per caso

di Matteo Balzanelli e Luca Lavazza

L’acquisto di crediti deteriorati può originare operazioni rilevanti ai fini Iva quando emerge un corrispettivo che remunera direttamente un servizio reso dal cessionario. E in questi casi, secondo la risoluzione 79/E del 31 dicembre 2021, si tratterebbe di operazioni esenti la cui base imponibile è costituita dalla differenza tra il “valore economico” dei crediti e il prezzo pagato al cedente.

Il ragionamento è il seguente. In generale, l’acquisto a titolo oneroso di un credito costituisce un servizio che, in quanto tale, rileva ai fini Iva e la cui base imponibile è data dalla differenza tra il valore nominale del credito stesso e il suo prezzo di vendita (risoluzione 32/E/2011). Quando però la cessione riguarda un credito deteriorato, non può non tenersi conto che «la differenza tra il valore nominale dei crediti ceduti e il prezzo di acquisto dei medesimi … riflette il valore economico effettivo di tali crediti al momento della loro cessione, su cui incide lo stato di sofferenza dei crediti stessi e l’accresciuto rischio di insolvenza dei debitori» (sentenza Corte Ue causa C-93/2010, Gfkl). Pertanto, il cessionario effettua un servizio (oneroso) rilevante ai fini Iva solo quando vi è una differenza remunerata tra il valore economico del credito e il prezzo di acquisto.

Proprio come avviene, per esempio, nel caso di un “pacchetto” di crediti deteriorati del valore nominale di 100, acquistati per 30, ma aventi “valore economico” di 40. In altre parole, l’acquirente, a fronte delle proprie valutazioni, decide di acquistare a 30 un credito di 100 che stima però di riuscire a incassare per 40, ottenendo 10 di “guadagno” (teorico): emerge una differenza tra valore economico del credito e prezzo pattuito, differenza che rappresenta la remunerazione del servizio reso dal cessionario.

La base imponibile è quindi direttamente influenzata dalla valutazione del credito da parte del cessionario e dalle conseguenti pattuizioni contrattuali. Infatti, essa «è costituita dall’ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti … secondo le condizioni contrattuali» (articolo 13, Dpr 633/1972), dove il corrispettivo “costituisce il valore soggettivo effettivamente percepito in ogni caso concreto, e non un valore stimato secondo criteri oggettivi” (ex multis, sentenza Corte Ue causa C-40/09). La “dipendenza” della base imponibile dalla valutazione economica operata dal cessionario assume quindi un ruolo centrale, tanto per la qualificazione dell’operazione ai fini della rilevanza Iva che per la determinazione del corrispettivo.

Sotto quest’ultimo aspetto, in particolare, va evidenziato che il cessionario deve essere in grado di documentare il “valore soggettivo” (che corrisponde alla differenza tra “valore economico” e prezzo pagato) attribuito ai crediti acquistati e, indirettamente, quindi, anche alla prestazione resa e che questo non può che avvenire avvalendosi delle “carte di lavoro” interne dalle quali possano desumersi i criteri previsionali e le metodologie statistiche, nonché altri fattori rilevanti come le eventuali garanzie che assistono i vari crediti, che hanno consentito di determinare i flussi di cassa attesi dalla gestione di ciascun portafoglio crediti.

Il valore della prestazione così determinato si cristallizza al pagamento del prezzo (momento di effettuazione dell’operazione) e non si renderanno necessarie rettifiche della base imponibile in caso di incassi non in linea con le previsioni. In questi casi, al fine di evitare contestazioni, potrebbe risultare utile dare data certa alle “carte di lavoro”.

Se da un lato la risoluzione 79/E ha il pregio di chiarire la modalità per la determinazione della base imponibile, dall’altro sembra dare per scontato che la causa dell'operazione sia finanziaria, facendone derivare l'esenzione, aspetto che, a parere di chi scrive, meriterebbe un approfondimento, come peraltro è stato fatto in altre occasioni (risoluzione 32/E/2011) e come suggeriscono la Corte di Giustizia UE (causa C-305/01) e la Commissione Ue (working paper 917 del 2017).

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