Controlli e liti

Crediti fittizi? Il consulente concorre nel reato

Concorre nel reato di indebita compensazione il consulente che sistematicamente crea fittizi crediti per agevolare la società nei pagamenti. A confermarlo è la Cassazione con la sentenza n. 44939 depositata il 6 dicembre

di Antonio Iorio

Concorre nel reato di indebita compensazione il consulente che sistematicamente crea fittizi crediti per agevolare la società nei pagamenti. A confermarlo è la Cassazione con la sentenza n. 44939 depositata ieri.

Una consulente fiscale era stata condannata per aver concorso con il legale rappresentante di una società nel reato di indebita compensazione di crediti inesistenti.

La pena era stata confermata anche in appello e pertanto l’imputata proponeva ricorso per cassazione lamentando l’errata valutazione delle prove. In concreto, infatti, alcune pratiche di studio erano state delegate al marito della professionista e pertanto mancava il suo diretto contributo al delitto contestato.

I giudici di legittimità hanno innanzitutto rilevato che il reato di indebita compensazione (articolo 10 quater Dlgs. 74/2000) si consuma al momento della presentazione dell’ultimo modello F24 relativo all’anno interessato e non in quello della successiva dichiarazione dei redditi.

Solo attraverso il modello F24, si realizza il mancato versamento dell’imposta dovuta per effetto dell’indebita compensazione di crediti non spettanti o inesistenti.

In tale contesto, la Cassazione ha precisato che è configurabile la responsabilità concorsuale tra il consulente fiscale e il contribuente, soprattutto nel caso di violazioni tributarie seriali e ripetitive.

Il giudice di merito aveva ravvisato la sussistenza di numerosi indizi gravi, precisi e concordanti, che univocamente deponevano per il consapevole concorso della professionista.

Era stato dimostrato che l’imputata sistematicamente aveva creato crediti Iva fittizi volti al successivo utilizzo in compensazione per più periodi di imposta. Risultava anche che la documentazione contabile curata dallo studio della professionista era inattendibile e infine, era stata legale rappresentante della società beneficiaria delle indebite compensazioni.

Va segnalato che secondo un orientamento abbastanza uniforme della giurisprudenza di legittimità, per ritenere il professionista compartecipe nei reati tributari commessi dal cliente, è necessario il dolo specifico dell’illecito e, pertanto, l’apporto professionale deve essere caratterizzato dalla volontà fraudolenta finalizzata all’evasione. L’indagine deve dunque accertare se il professionista abbia agito scientemente e insieme al cliente, per realizzare lo scopo evasivo.

In quest’ultimo periodo si è spesso affrontata la questione dell’apposizione del visto di conformità da parte del consulente rispetto a dichiarazioni riportanti crediti di imposta che potrebbero rivelarsi, in un prossimo futuro, falsi. La Cassazione (sentenza 26089/2020) in una vicenda analoga ha preliminarmente indagato il contributo del professionista, che aveva omesso qualsivoglia controllo, non trattenendo copia della documentazione contabile.

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