Controlli e liti

Definizione liti pendenti, niente condanna alle spese con la rinuncia al ricorso in Cassazione

L’ordinanza 24303/2020: la misura sarebbe in contrasto con lo spirito della sanatoria che graverebbe il contribuente di ulteriori oneri

di Roberto Bianchi

Nell’ambito della definizione agevolata delle liti fiscali prevista dall’articolo 6, comma 2, del Dl 193/2016, nel caso in cui il contribuente rinunci al ricorso durante il procedimento di legittimità, non trova applicazione la regola generale all’articolo 391, comma 2, del Codice di procedura civile. La condanna alle spese, infatti, contrasterebbe con la ratio della definizione agevolata, dissuadendolo dall’aderire alla stessa, mediante la previsione di oneri ulteriori rispetto a quelli contemplati dalla legge e, pertanto, anche se l’amministrazione finanziaria non accetta la rinuncia, deve essere disposta la compensazione delle spese. A tale conclusione è giunta l’ordinanza 24303/2020 della Cassazione.

Il collegio di legittimità si è pronunciato in merito alla regolamentazione delle spese nel caso di rinuncia al giudizio in conseguenza della definizione dei carichi tributari pendenti e, con decisione fondata sulla valutazione della ratio legis delle previsioni disposte nell’ambito della definizione agevolata, è giunto alla condivisibile conclusione della necessaria compensazione delle spese del giudizio oggetto di rinuncia.

La definizione delle controversie, in ambito processuale, acquisisce una necessaria forma in forza della decisione assunta dal legislatore. In riferimento al giudizio di merito viene disciplinata dall’articolo 44 del Dlgs 546/1992 mentre per i giudizi di legittimità la materia della rinuncia è regolamentata dagli articoli 390 e 391 del Codice di procedura civile.

Partendo da quest’ultimo grado di giudizio è opportuno rilevare come, nelle prescrizioni normative, venga prospettata la possibilità di rinunciare al ricorso principale o al ricorso incidentale, entro termini fissati dalla disciplina e venga inoltre regolamentata la procedura con la quale la rinuncia possa essere formalmente eseguita, prevedendo anche come la stessa debba essere notificata alle parti costituite.

Ci troviamo al cospetto di una disciplina differente rispetto a quella prevista dall’articolo 306 del Codice di procedura civile, che dispone l’estinzione del processo per rinuncia agli atti del giudizio e che prevede, a tale scopo, l’accettazione delle parti costituite che potrebbero aver interesse alla prosecuzione del contenzioso.

Nel caso di giudizio per cassazione, pertanto, alla estinzione consegue il passaggio in giudicato della decisione impugnata e, di conseguenza, non potrebbe sussistere alcun interesse alla prosecuzione in capo alla controparte (Cassazione, ordinanza 3971/2015).
Relativamente alle spese, l’articolo 391, comma 2, del Codice di procedura civile, prevede che il provvedimento che asserisce l’estinzione possa condannare alle spese la parte che vi ha dato causa (Cassazione, ordinanza 17187/2014). È doveroso precisare che la condanna alle spese è inibita esclusivamente dalla adesione alla rinuncia della controparte, considerato che la disposizione normativa non permette, diversamente, di addivenire alla compensazione.

Del resto, anche nella disciplina regolata dall’ultimo comma dell’articolo 306 del Codice di procedura civile è disposto che chi rinuncia è tenuto a rimborsare le spese alle altre parti, fatta salva in quest’ultimo caso la possibilità di addivenire a un differente accordo tra le medesime (Cassazione, sentenza 21933/2006).

Relativamente alle spese nei giudizi di merito, l’estinzione per rinuncia comporta il rimborso delle spese, al pari di quanto previsto per il giudizio di legittimità rimanendo peraltro salva, in entrambe le circostanze, la facoltà di raggiungere una differente intesa tra le parti processuali (Cassazione, sentenza 10198/2018).

Tale concetto ha sottolineato come la disciplina delle spese, nell’ipotesi di una pronuncia di estinzione per rinuncia e in mancanza dell’adesione alla rinuncia da parte dell’Amministrazione finanziaria, dovrebbe comportare la condanna al pagamento delle spese; tuttavia, nella situazione rappresentata, una soccombenza alle spese si porrebbe in palese contrasto con la ratio legis sottostante alla disposizione normativa afferente la definizione agevolata in quanto, in tale maniera, si graverebbe il contribuente un onere superiore rispetto a quello disposto dalla sanatoria dei carichi affidati all’agente della riscossione.

Siamo di fronte a una constatazione che appare certamente conforme al dettato normativo considerato che, da una parte, il procedimento di definizione obbliga il contribuente a rinunciare ai giudizi pendenti e, dall’altra, l’articolo 391 del Codice di procedura civile implica la necessaria condanna alle spese in assenza di una differente consonanza tra le parti.

La soluzione raggiunta dalla Cassazione appare del tutto condivisibile e, sebbene la rinuncia al giudizio prevista dal Dl 193/2016, avrebbe letteralmente imposto la condanna alle spese della parte rinunciante, il Collegio di legittimità ha effettuato una valutazione sistematica del complesso normativo, giungendo a escludere tale illogica conclusione.

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