È interposta la società di servizi che opera solo per un professionista e con prezzi gonfiati
L’ordinanza della Cassazione sul caso di un notaio fa ancora confusione tra abuso del diritto ed evasione
Risulta interposta una società di servizi che fornisce ad un notaio prestazioni remunerate oltre i valori di mercato e che opera esclusivamente a favore dello stesso notaio. Società di servizi che ha come unico socio la moglie e amministratore unico il padre del notaio. Lo ha stabilito la Cassazione con l’ordinanza 2084/2021 del 29 gennaio.
La sentenza
La vicenda nasce da un accertamento effettuato, ai sensi dell’articolo 37, comma 3, del Dpr 600/1973, con il quale sono stati attribuiti al notaio i redditi della società di servizi che gli forniva i servizi amministrativi per lo svolgimento dell’attività professionale. Società di servizi che, come riportato, risulta partecipata dalla moglie e amministrata dal padre del notaio.
La Cassazione ha confermato l’operato dei giudici di merito, i quali avevano stabilito che le contestazioni mosse dall’Agenzia hanno i requisiti di gravità, precisione e concordanza stabiliti dall’articolo 37, comma 3, del Dpr 600/1973. Le contestazioni si fondavano sulla remunerazione dei servizi forniti dalla società «oltre i valori di normalità del mercato, nel basso contenuto specialistico dei servizi, che il notaio avrebbe potuto acquisire direttamente, risparmiando sui costi, nella operatività della società esclusivamente nei confronti del contribuente, nella composizione soggettiva della … Srl, il cui unico socio era il coniuge del notaio e amministratore unico il padre del notaio, e ancora nella vantaggiosità fiscale dell’interposizione che ha comportato una dilatazione del reddito della società, soggetto ad aliquota più bassa di quello applicabile al reddito del ricorrente».
Conclude la Corte che «la competenza professionale della moglie e del padre del notaio e la qualificazione dei dipendenti della società non contraddicono la fittizietà dell’interposizione, atteso che la condotta negoziale attuata, sebbene sia stata realizzata mediante strumenti giuridici del tutto legittimi… ha consentito al contribuente di conseguire un notevole risparmio d’imposta, previo abbattimento dell’imponibile».
L’interposizione e l’evasione
Prima di analizzare quest’ultimo (infelice) passaggio, vediamo di svolgere un paio di premesse. In primo luogo, occorre rilevare che l’evasione si realizza – chiaramente - quando si agisce contra legem. L’evasione si può generare attraverso l’occultamento di ricavi, di corrispettivi, eccetera, così come attraverso l’indicazione di spese non inerenti, non di competenza, e così via; in sostanza, l’evasione si realizza attraverso tutte quelle situazioni che conducono alla rappresentazione di risultati diversi da quelli stabiliti dalla legge. In questo modo si può agevolmente rappresentare che l’evasione si concretizza anche attraverso fenomeni simulatori. La simulazione in genere (intendendosi per tale anche la dissimulazione e l’interposizione) risulta caratterizzata dalla divergenza tra la fattispecie realizzata e quella dichiarata e, pertanto, non può che collocarsi nell’ambito dell’evasione.
Tra le forme di simulazione rientra anche l’interposizione fittizia, che investe la identità di una delle due parti: nel contratto simulato appare come contraente un soggetto (detto interposto) che è persona diversa dal reale contraente (interponente).
Nell’elusione (abuso del diritto) non vi è invece alcuna finzione o “travestimento”: i soggetti vogliono proprio gli effetti di quel particolare negozio, ivi inclusi i vantaggi fiscali, che, tuttavia, risultano indebiti. In sostanza, l’elusione non implica affatto una simulazione del contratto e la presenza di contro dichiarazioni attestanti una diversa volontà delle parti rispetto a quella manifestata nella strumentazione negoziale posta in essere. E ciò perché nel concludere quei contratti se ne accettano tutte le conseguenze, in quanto queste si vogliono e – in particolare – quelle fiscali.
Il profilo tributario
La simulazione in genere (tra cui l’interposizione fittizia) risulta disciplinata dall’articolo 37, comma 3, del Dpr 600/1973, in base al quale «in sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona».
Per le ipotesi riconducibili all’articolo 37, comma 3, del Dpr 600/1973, l’amministrazione, dunque, alla stregua di un terzo pregiudicato, può fare valere la simulazione ed accertare l’assetto effettivo dell’operazione. L’ufficio, pertanto, deve provare, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che i contratti posti in essere risultano simulati o che, comunque, si è in presenza di interposizione fittizia, con la conseguente imputazione dei redditi al soggetto che ne risulta l’effettivo possessore.
Nel caso dell’accertamento al notaio è stato quindi stabilito che gli elementi fondanti l’accertamento dell’ufficio avessero i requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dalla norma.
Quello che stona soltanto è che in relazione a fenomeni di interposizione fittizia la Cassazione faccia riferimento all’utilizzo di strumenti giuridici pienamente legittimi attraverso i quali si è conseguito un vantaggio fiscale. Ancora una volta la Cassazione non sembra davvero comprendere la “latitudine” dei fenomeni di simulazione/dissimulazione/interposizione, nei quali vi è – chiaramente – un’asimmetria tra la situazione formale e quella reale, e quindi si è nell’ambito dell’evasione. Non si può parlare certo di strumenti giuridici legittimi. Quelli casomai riguardano l’abuso del diritto, dove risulta illegittimo il solo vantaggio fiscale conseguito.