Controlli e liti

Fa fede la fattura: onere della prova in capo all’amministazione

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di Giovambattista Palumbo e Algina Ferrara

Davanti all’esibizione della fattura spetta all’amministrazione finanziaria provare il diritto o meno alla detrazione Iva o alla deduzione del costo. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9363 dell’8 maggio 2015, torna ad affrontare il tema della ripartizione dell’onere della prova in caso di contestazione di operazioni inesistenti.

I giudici di legittimità affermano in particolare che, premesso che la fattura (di regola, salva l’ipotesi di contabilità inattendibile), è documento idoneo a rappresentare un costo dell’impresa, purché sia redatta in conformità ai requisiti di forma e contenuto prescritti, ne deriva che una regolare fattura, lasciando presumere la verità di quanto in essa rappresentato, costituisce titolo per il contribuente ai fini del diritto alla detrazione dell’Iva o alla deduzione del costo indicato. A fronte, quindi, della esibizione della fattura, spetta all’Ufficio dimostrare il difetto delle condizioni per la detrazione o la deduzione. In applicazione dei principi generali in tema di prova, questa può del resto anche consistere in presunzioni semplici, poiché la prova presuntiva non è collocata su un piano gerarchicamente subordinato rispetto alle altre fonti di prova e costituisce una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza anche in via esclusiva ai fini della formazione del proprio convincimento.

Nel caso in cui l’Ufficio ritenga che la fattura concerna operazioni oggettivamente inesistenti, spetta a lui quindi l’onere di fornire elementi probatori del fatto che l’operazione fatturata non è stata effettuata (ad esempio, provando che la società emittente la fattura è una “cartiera”) e a quel punto e solo a quel punto passerà sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate. Quest’ultima prova non potrà consistere, però, nella mera esibizione della fattura, nè nella sola dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, i quali vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia.

È poi evidente che, in caso di accertata assenza dell’operazione, è escluso che possa configurarsi la buona fede del cessionario o committente, il quale sa bene se una determinata fornitura di beni o prestazione di servizi l’ha effettivamente ricevuta o meno. In ipotesi di fatture che l’Ufficio ritenga relative ad operazioni oggettivamente inesistenti, l’Amministrazione deve dunque provare, anche mediante presunzioni, che l’operazione commerciale oggetto della fattura non è stata posta in essere, o che tale documento sottende comunque un’operazione fraudolenta. La prova che la prestazione non è stata effettivamente resa dal fatturante, perchè per esempio sfornito della sia pur minima, dotazione personale e strumentale adeguata alla sua esecuzione, costituisce del resto, di per sé, idoneo elemento sintomatico dell’assenza di “buona fede” del contribuente, in particolare laddove l’’immediatezza dei rapporti (cedente o prestatore fatturante cessionario o committente) induce ragionevolmente ad escludere l’ignoranza incolpevole del cessionario o committente. L’onere della prova a carico dell’Amministrazione Finanziaria potrà del resto ritenersi soddisfatto, anche in via presuntiva, laddove tra il fatto noto e il fatto ignoto non occorre che sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità. E, coerentemente con le indicazioni della Commissione Ue, che afferma che un modo efficace per combattere le “frodi carosello” è proprio quello di negare il recupero dell’Iva alle altre parti coinvolte nella frode, se il cessionario acquisisce un illecito profitto (quale deve esser riconosciuta la detrazione collegata ad una frode), la detrazione stessa deve essere negata (Cfr. anche Corte di Giustizia Ue, 3 marzo 2005, causa C-32/03).

La sentenza 9363/15 della Cassazione

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