Contabilità

Finanziamento infruttifero, una scelta da valutare con cautela

di Giorgio Gavelli

Niente derivazione rafforzata e rischio presunzioni. Così si può sintetizzare la disciplina fiscale dei finanziamenti descritti nel pezzo di apertura.

Occorre partire dal principio che, in virtù dell’articolo 3, comma 2 del Dm 48/2009 (richiamato dall’articolo 2, comma 1 lettera a del decreto 3 agosto 2017), qualora l’applicazione di differenti princìpi contabili - o anche del medesimo principio ma secondo criteri facoltativi diversi – porti a rappresentare le operazioni intercorse tra soggetti diversi con criteri non omogenei, sono possibili (e legittimi) salti d’imposta. Con riferimento ai finanziamenti in argomento, vista la contiguità tra società e socio, il legislatore ha cercato di evitare sul nascere che ciò accadesse, disponendo, con i decreti del 3 agosto scorso, che nel caso in questione:

ai fini Ires, venga disapplicata la derivazione rafforzata, per cui assumono rilevanza esclusivamente i componenti positivi e negativi imputati a conto economico, desumibili dal contratto di finanziamento (nulli se questo è infruttifero);

ai fini Ace, viene sancita l’irrilevanza tanto della riserva iscritta dalla società finanziata quanto del maggior costo della partecipazione iscritto dalla mutuante.

Oltre alla seccatura del doppio binario, con la necessità di smontare fiscalmente ciò che si è (non senza complessità) rilevato contabilmente, emergono tutte le incertezze del legislatore tributario, che ha ritenuto di declinare un principio applicabile contabilmente a tutte le ipotesi che ne presentano i requisiti sostanziali:

ai fini Ires, ai soli soggetti «tra i quali sussiste il rapporto di controllo di cui all’articolo 2359 del codice civile»;

ai fini Ace, senza alcuna particolare limitazione.

Il rischio è che sfuggano alla disapplicazione della derivazione rafforzata ai fini dell’imposizione diretta proprio quelle fattispecie che si volevano colpire (prestiti da società collegate e, secondo alcuni, da soci persone fisiche), senza alcuna valida motivazione.

Inoltre, non è affatto chiaro quando rileva il controllo richiamato dalla norma. Non ha attualmente risposta ufficiale neppure il dubbio riguardante la natura della riserva rilevata dalla partecipata, la quale andrà ricondotta alla dicotomia «riserva di utili o di capitale», atteso il differente trattamento fiscale in caso di distribuzione ai soci.

Peraltro, un finanziamento infruttifero infragruppo può andare soggetto:

ad una presunzione di onerosità (articolo 45, comma 2 del Tuir), letta in maniera molto ambigua dalla Corte di cassazione (sentenza n. 2735/2011), che arriva sino a pretendere ritenute anche laddove non risulta provato il pagamento di interessi (da ultimo, ordinanza 3819/2018, per la quale si veda il Sole 24 Ore del 17 febbraio scorso);

ad una possibile censura di antieconomicità, in particolare laddove la società erogante sostenga nel finanziarsi oneri maggiori di quelli richiesti alla partecipata;

ove coinvolga soggetti non residenti, ad una possibile contestazione da transfer price (articolo 110, comma 7, Tuir), su cui è in corso un dibattito interno alla stessa Corte di cassazione (pronunce 18875/2016, 7493/2016, 15005/2015 e 27087/2014) e che, comunque, entrerebbe in collisione con l’irrilevanza prevista dal Dm n. 48/2009.

Occorre, insomma, suggerire la massima prudenza. Considerata l’attuale misura dei tassi di interesse di mercato, forse la previsione di infruttuosità non è la scelta migliore, né sotto l’aspetto civilistico né sotto quello fiscale. Così come la disciplina civilistica sulla postergazione può far propendere per l’abbandono della logica del finanziamento in favore di quella della formale patrimonializzazione.

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