Controlli e liti

FISCO E SENTENZE/Le massime di merito: rimborsi Iva negati, notifiche via Pec e autotutela

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di Ferruccio Bogetti e Filippo Cannizzaro

Nelle massime di merito di questa settimana il corretto comportamento che l’amministrazione deve seguire per negare il rimborso Iva alle società di comodo, i termini per l’impugnazione da parte del contribuente, la notifica via Pec, gli immobili rurali, le competenze del giudice amministrativo e di quello tributario sull’atto impugnato, la falsa non imponibilità Iva nella Ue, i costi di impianto e di ampliamento e infine l’autotutela.

Il rimborso Iva può essere negato solo con l’onere della prova a carico dell’amministrazione

Per negare il rimborso Iva alle società dall’Amministrazione ritenuta di comodo, essa deve dapprima dimostrare che la contribuente sia qualificabile come tale sotto il profilo normativo e sotto il profilo probatorio. A livello normativo, sono definite di comodo le società che posseggono almeno uno dei sottostanti requisiti:

a) presentano dichiarazioni fiscali nelle quali risultano le cosiddette «perdite sistematiche» per cinque esercizi consecutivi, così come disposto dall’articolo 2, commi 36-decies e 36-undecies, del Dl 138/11, poi modificato dall’articolo 18 del Dlgs 175/14;

b) dichiarano ricavi inferiori a quelli risultanti dal cosiddetto «test di operatività», così come previsto dall’articolo 30 del Dl 724/94 (in pratica, ricavi rapportati al valore dei beni strumentali appositamente individuati).

A livello probatorio, l’amministrazione per non rimborsare l’Iva a credito deve provare che:

a) la contribuente abbia dichiarato perdite fiscali per cinque esercizi consecutivi (nel caso di specie, le perdite si riferiscono ai periodi d’imposta dal 2012 al 2015, la presentazione dell’istanza di rimborso è avvenuta nel 2015, e quindi non sono state dichiarate perdite per cinque anni consecutivi, bensì solo per quattro);

b) i ricavi dichiarati siano inferiori a quelli previsti dal test di operatività (nel caso di specie, l’Amministrazione non ha documentato, e quindi provato, che la contribuente abbia dichiarato ricavi inferiori a quelli presunti dal c. d. “test di operatività”).

—Ctp Bergamo, sentenza 289/1/2017

I termini per impugnare decorrono dal giorno indicato dal contribuente nel ricorso

L’indicazione della data di ricezione dell’atto impositivo da parte del contribuente nell’istanza di accertamento con adesione, successivamente ribadita nel ricorso introduttivo presentato, fa fede ai fini della decorrenza del termine iniziale per proporre l’impugnazione. L’indicazione di tale termine “iniziale” ha effetto sia sul termine di scadenza naturale dei sessanta giorni ex se, sia sul termine entro i quali va presentata l’istanza di accertamento con adesione per usufruire degli ulteriori novanta giorni, sia infine sul termine entro il quale iniziano a decorrere i giorni per la sospensione feriale dell’attività processuale. Il ricorso introduttivo va pertanto presentato entro il termine ultimo calcolato sommando tutti i giorni che costituiscono questi tre distinti intervalli temporali (giorni per l’impugnazione, giorni per l’accertamento con adesione, giorni della sospensione feriale), pena la sua inammissibilità.
Nel caso di specie, l’atto impositivo viene notificato in data 25 giugno 2014 così come indicato dallo stesso contribuente dapprima nell’istanza di accertamento con adesione e poi nel corpo del ricorso introduttivo. Il termine naturale per l’impugnazione è il 9 ottobre 2014, tenuto conto dei sessanta giorni previsti dalla norma nonché del termine di sospensione feriale “ratione temporis” applicabile: 1 agosto - 15 settembre. Prima dello scadere del 9 ottobre 2014, il contribuente presenta il 3 ottobre 2014 istanza di accertamento con adesione, ed usufruisce così dell’ulteriore sospensione amministrativa di novanta giorni. La somma di tutti questi periodi porta al 7 gennaio 2015. Il ricorrente spedisce il ricorso l’11 febbraio 2015, cioè fuori termine di ben trentacinque giorni.

—Ctp Catania, sentenza 4290/2/2017

Sì alla notificazione via Pec della cartella senza specifiche contestazioni del contribuente

La cartella esattoriale può essere legittimamente notificata a mezzo posta elettronica certificata anche qualora il contribuente si limiti a contestare in maniera generica la nullità della notifica, senza però evidenziare alcun vizio di difformità tra la copia analogica depositata in giudizio dal concessionario rispetto all’originale informatico. Questo perché, ai sensi dell’articolo 3 del Dpr 68/05, il documento informatico si ha per spedito nel momento in cui il mittente lo trasmette al proprio gestore, il quale, una volta ricevuto il messaggio, provvede a trasmetterlo alla casella Pec del destinatario.
La prova del corretto invio dell’atto tramite Pec può essere data dal concessionario tramite la produzione in giudizio delle ricevute di avvenuta accettazione e consegna, e della copia analogica del documento informatico (in pratica, della cartella). In tal caso la notifica è valida se viene rispettato il primo comma dell’articolo 23 del Dl 82/05, ovvero se la conformità della cartella depositata in giudizio è attestata da pubblico ufficiale a ciò autorizzato. È ugualmente valida la notifica se, a mente del secondo comma del medesimo articolo, il contribuente non disconosce la conformità del documento analogico rispetto all’originale informatico.

—Ctp Milano, sentenza 3940/21/2017

Rurali anche gli immobili di campagna con una superficie oltre i 240 mq

Anche oltre i 240 metri quadrati di superficie può essere riconosciuta la ruralità di immobile, senza necessariamente possedere il requisito oggettivo della superficie. Dal punto di vista soggettivo, la ruralità va riconosciuta all’immobile per:

a) la qualifica di imprenditore agricolo del soggetto residente (nel caso di specie, il proprietario è titolare di pensione agricola);

b) per alcuni fatti notori applicabili a questo tipo di immobili rurali, quali:

■ Immobili costruiti nel passato per far convivere intere famiglie “patriarcali”;

■ Immobili vetusti e privi dei normali comforts, che, di norma sono presenti nelle abitazioni di città.

Dal punto di vista oggettivo, la ruralità va riconosciuta all’immobile perché:

a) un fabbricato con una superficie superiore ai 240 metri quadrati ha in città ha un valore ovviamente differente da altro posto in campagna;

b) La normativa di riferimento (Dm 2 agosto 1969) è ormai “datata”, e distingue in maniera netta il Catasto dei Terreni dal Catasto dei Fabbricati, riservando le caratteristiche di lusso sono ai soli fabbricati urbani;

c) il comportamento contrastante dell’amministrazione nell’attribuzione della categoria catastale rispetto a quella superiore normativamente prevista (nel caso di specie, l’amministrazione ha attribuito al bene immobile la categoria A/1, cioè abitazione di tipo signorile, quando avrebbe dovuto, se avesse rispettato la norma, attribuire le categorie “superiori di lusso”, vale a dire categoria A/8, abitazioni in ville, ovvero categoria A/9, cioè castelli o palazzi di pregio).

—Ctp Treviso, sentenza 283/1/2017


Giudice tributario e amministrativo valutano in maniera diversa l’invalidità dell’atto

Il ricorso contro un atto derivato (ad esempio, un’iscrizione a ruolo a titolo definitivo) può contenere vizi propri “in senso lato” (ad esempio, l’omessa notificazione dell’accertamento), ma tale vizio va però dedotto nel ricorso introduttivo contro l’atto derivato nel termine decadenziale dei sessanta giorni. Questo perché, pur essendo il diritto tributario una “sub-specie” del diritto amministrativo, al primo si applicano le norme speciali del diritto processuale tributario, ove la mancata deduzione del vizio rende definitiva la pretesa tributaria, senza che possa essere eccepita successivamente. Tale vizio non può essere rilevato d’ufficio dal giudice tributario, ove il giudice amministrativo ha il potere-dovere di rilevare l’invalidità/annullabilità dell’atto presupposto impugnato tramite l’atto successivo.

—Ctr Lazio, sentenza 2738/1/2017


Tanti indizi messi insieme provano la falsa non imponibilità Iva nella Ue

La cessione di beni dal cedente italiano al cessionario Ue deve essere adeguatamente provata al fine di godere della non imponibilità Iva e quindi l’Amministrazione può disconoscerla analizzando tutta una serie di elementi “fisici” e “cartacei”.
Relativamente all’ aspetto “fisico”:

a) effettuazione dei trasporti sempre ad opera dello stesso amministratore della società rumena;

b) distanza temporale troppo ravvicinata tra le varie date di effettuazione dei trasporti.

Relativamente all’aspetto “cartaceo”:
■ Omessa presentazione del modello Intrastat da parte della società rumena;
■ Mancata coincidenza tra ammontari fatturati dalla società venditrice italiana ed i pagamenti effettuati dalla società acquirente rumena (nel caso di specie, ciò è emerso sia in sede di verifica fiscale sia in sede di giudizio tributario);
■ Inverosimiglianza di pagamenti, effettuati tutti a mezzo contante, e, soprattutto, per ammontari elevati (200mila euro).

—Ctr Lombardia, sentenza 2409/18/2017

Le spese nella fase pre-operativa costituiscono costi di impianto e ampliamento
Costituiscono «Costi di impianto e ampliamento» gli investimenti iniziali nella fase pre-operativa dell’attività aziendale, i quali vanno ammortizzati per quote costanti in un periodo di cinque anni. Ciò perché i beni strumentali vanno raggruppati per categorie omogenee cui si applica una specifica percentuale in funzione della loro residua possibilità di utilizzazione, percentuali stabilite ai fini fiscali dal Dm del 31 dicembre del 1988. Se ciò non è possibile perché né l’ufficio né il contribuente sono riusciti ad individuare e quindi a raggruppare per categorie omogenee i beni oggetto d’investimento cui attribuire una specifica aliquota (se ad esempio un determinato bene sia qualificabile come macchinario, come attrezzatura, etc…), allora gli stessi vanno tutti ricompresi nella voce «Costi impianto e ampliamento» in quanto trattasi di spese sostenute per avviare l’attività imprenditoriale, così come definiti dall’articolo 2424 del Codice civile, e che vanno ammortizzati per cinque anni.
Quindi risulta erroneo l’operato dell’ufficio che attribuisce ai beni oggetto di investimento una maggiore vita utile (nel caso di specie, ventinove anni) se dall’analisi del libro cespiti dell’impresa è evidente che i beni avranno una durata inferiore (nel caso di specie, l’investimento, nel complesso, comprende anche attrezzature ed impianti). Mutatis mutandis, è altresì sbagliata la valutazione fattane dal contribuente secondo cui tali beni si ammortizzano in soli due anni, perché non veritiera. Vanno pertanto qualificate come «Costi di impianto e ampliamento» le spese sostenute dall’imprenditore che intenda avviare una attività di gestione di piscine (investimento totale di oltre 126mila euro), spese sostenute nella fase di avvio attività, se non è possibile attribuire ad ogni singola spesa la relativa categoria di appartenenza.

—Ctr Puglia, sezione staccata Lecce, sentenza 2172/23/2017


L’autotutela può bloccare la litispendenza nel processo tributario

L’istituto dell’autotutela applicata a gradi di giudizio diversi rappresenta un ostacolo per l’applicazione dell’istituto della litispendenza che intende anche nel campo processuale tributario impedire il formarsi di diversi giudizi aventi ad oggetto la medesima controversia. In particolare tale istituto non si applica se in un grado di giudizio risultano essere differenti sono petitum e causa petendi.
Nel caso di specie, in ordine temporale:

a) l’amministrazione emana un primo atto;

b) si instaura un primo contenzioso favorevole al contribuente;

c) l’amministrazione appella la “prima” sentenza sfavorevole;

d) l’amministrazione annulla l’atto impositivo in autotutela ed invia un secondo atto sostitutivo del primo;

e) si instaura un secondo contenzioso favorevole al contribuente sulla falsariga del giudizio sub b);

f) l’Amministrazione appella la “seconda” sentenza sfavorevole.

—Ctr Sicilia, sezione staccata Caltanissetta, sentenza 2130/7/2017

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