Fondi pensione dipendenti pubblici, doppia opzione per avere il rimborso
La sentenza con cui la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disciplina dei fondi pensione pubblici, nella parte in cui tassa il riscatto volontario della posizione del dipendente in modo più gravoso rispetto a ciò che accade nel settore privato ( si veda il Sole 24 Ore di ieri ), potrebbe avere conseguenze anche sulle regole di deducibilità dei contributi della previdenza complementare.
In base alla normativa dichiarata incostituzionale, vigente fino a fine 2017, le somme percepite a titolo di riscatto di un fondo dovevano essere assoggettate a Irpef ordinaria, mentre nel privato sono assoggettate a imposizione sostitutiva. Le argomentazioni della Corte sembrano adattarsi anche alla deduzione dei contributi. Mentre nel privato la deduzione è collegata solo al valore assoluto del contributo, per la parte che non eccede 5.164,57 euro, fino al 2017, nel pubblico operavano tre limiti alternativi. Questi erano rappresentati dal medesimo tetto di 5.164,57 euro, dal 12% del reddito complessivo e dal doppio della quota di Tfr devoluta al fondo. Il minore di essi costituita il limite effettivo di deduzione che, nei fatti, determinava quasi sempre una penalizzazione rispetto ai dipendenti privati.
Diverse le analogie rispetto al riscatto. In primo luogo, anche in tal caso, prima dell’entrata in vigore del Dlgs 252/2005, le regole erano identiche. Vale inoltre evidenziare che, come è avvenuto per la tassazione dei riscatti, anche in punto di deducibilità la normativa è stata allineata nei due comparti, per effetto dell’articolo 1, comma 156, della legge 205/2017, a partire dal 2018.
Nel frattempo si è aperta la partita sui rimborsi dell’Irpef pagata in più sui riscatti. Vi sono due strade. La prima, semplice ma meno efficace, consiste nel presentare l’istanza di rimborso entro 48 mesi, ai sensi dell’articolo 38 del Dpr 602/73. Nel caso dei dipendenti, la data di riferimento dovrebbe essere individuata nel mese in cui è stata effettuata la ritenuta, anche se sarebbe più corretta quella del conguaglio di fine anno, che determina l’importo definitivo dell’imposta pagata. In via convenzionale, detta data potrebbe coincidere con il 31 dicembre di ciascun anno. In questo modo, si è peròsoggetti ai tempi lunghi del Fisco.
La seconda, più efficace, è la dichiarazione correttiva a favore, ai sensi dell’articollo 2, comma 8, Dpr 322/98, che si può presentare entro i termini di decadenza dell’azione di controllo (in passato, il 31 dicembre del quarto anno successivo). A tale riguardo, non può essere di ostacolo il fatto che all’epoca il dipendente non abbia presentato alcuna dichiarazione, essendo stata sufficiente la trasmissione della certificazione del datore di lavoro. Il Cud (oggi Cu) infatti ha valenza dichiarativa. Lo dimostra il fatto che nulla vieta che il dipendente faccia ad esempio il ravvedimento, presentando una dichiarazione integrativa, per evidenziare redditi all’epoca non indicati, pur in assenza a monte di una denuncia vera e propria.
Il vantaggio di questa procedura è che il credito emergente dalla dichiarazione correttiva potrà essere recuperato subito in compensazione dalle imposte relative all’anno successivo a quello di trasmissione della correttiva.