Gli studi di settore per risolvere l'incognita dell'Irap dei piccoli
Il nostro ordinamento tributario ha sempre dato rilevanza alle modalità di esercizio delle attività economiche indipendenti. Prima del 1974 avevamo le categorie dell'imposta di ricchezza mobile, cui si ricollegava una diversa aliquota di tassazione: categoria B per le imprese e categoria C1 per i redditi delle persone fisiche prodotti nell'esercizio di arti, di professioni e di imprese organizzate prevalentemente con il lavoro proprio del contribuente e dei componenti della famiglia. Poi si passò all'Ilor, la cui soggettività fu per anni sofferta al pari dell'Irap, arrivando ad una disposizione di legge che ne esentava i titolari di reddito di lavoro autonomo (anche se la Corte costituzionale aveva considerato esenti da questo tributo solo quelli non organizzati ad impresa, cioè senza una significativa struttura di uomini e mezzi), poi estesa alle imprese con un numero di addetti sino a tre, compreso il titolare o i soci.
I presupposti
L'Irap si fonda sulla nozione di «autonoma organizzazione», che l'amministrazione finanziaria aveva, per evidenti motivi di gettito, interpretato come "organizzazione autonoma", sostenendo che questo tributo fosse dovuto da chiunque operasse in modo non dipendente da altri, di fatto purché titolare di partita Iva. La Corte costituzionale prima e la Cassazione poi hanno invece ribadito che il tributo va pagato solo da chi dispone di una propria struttura, idonea a potenziare la sua capacità di guadagno. Questa lettura viene dai lavori preparatori dell'imposta, che ci rifiutiamo di chiamare «regionale», perché – come ha più volte ribadito la giurisprudenza - è disciplinata unicamente dalla normativa nazionale, e le regioni possono solo stabilire aliquota ed esenzioni nell'ambito della disciplina erariale. Tornando al presupposto del tributo si parlò all'epoca di «dominio dei fattori produttivi» (intervento del professor Franco Gallo ne Il Sole 24 Ore del 3 maggio 1997), come a dire che si può produrre reddito anche se il titolare passa sei mesi all'anno ai Caraibi.
Nasce qui – come previsto dalla recente direttiva dell'agenzia delle Entrate – il tema della rilevanza dei collaboratori di chi lavora in proprio: non dimentichiamo che in Italia sia aprono ogni anno mezzo milione di partite Iva. Uno dei temi ricorrenti riguarda la qualificazione del dipendente: deve avere competenze specifiche, tali da collaborare concretamente nel risultato dell'opera del titolare, o fa scattare l'Irap anche un modesto collaboratore, magari part time, che si limita a rispondere al telefono?
La delega
La legge delega in corso di attuazione prevede una specifica disposizione sulla soggettività Irap, per chiarire la nozione di autonoma organizzazione, anche mediante la definizione di criteri oggettivi, adeguandola ai più consolidati princìpi desumibili dalla fonte giurisprudenziale.
Diciamo che di consolidato non c'è molto, in quanto la giurisprudenza è tuttora altamente oscillante: le decisioni si alternano in presenza di un collaboratore d'ordine, o per l'appartenenza ad uno studio associato. Non ci sono dubbi sulla irrilevanza dei beni per l'esercizio dell'attività, purché «indispensabili» (ma chi lo decide?) e sul fatto che l'entità dei compensi non sia un presupposto per l'applicazione del tributo.
Non sarà pertanto facile il compito del legislatore delegato. Qualche punto fermo può riguardare:
1) la tipologia del contribuente (lavoratore autonomo, ditta individuale, società di persone);
2) il numero complessivo degli addetti, compresi i soci e gli associati, senza distinguere in merito alla loro qualificazione, in quanto pur non essendo corretto assimilare tutte le tipologie di collaboratori, la loro distinzione sarebbe altamente opinabile;
3) l'entità del capitale investito, che deve essere differenziata in relazione all'attività esercitata.
Anche questo calcolo non è semplice, ma non dimentichiamo che la decisione sulla soggettività Irap ha uno strumento formidabile: gli studi di settore.
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