I mali del fisco e il miraggio della tassa piatta
La flat tax proposta dall’Istituto Bruno Leoni ha l’indubbio pregio di aver risvegliato il dibattito su una non più procrastinabile riforma fiscale. I problemi del fisco italiano, però, stanno a monte, nella determinazione dell’imponibile e nell’efficienza della macchina amministrativa e non nell’aliquota, flat o no, a valle.
È innegabile che il sistema attuale è un frammentario non senso, con tante aliquote già flat e l’Irpef progressiva che ormai colpisce solo redditi da lavoro e da pensione (di converso, proprio quelli da “liberare”). E li colpisce già con una sorta di flat tax, perché sopra i 28mila euro l’Irpef si “appiattisce” presto sul 43%. Qui starebbero i maggiori benefici della flat tax proposta, perché almeno per quei pochi (900mila) soggetti ad aliquota massima, la tassazione oggi oppressiva diminuerebbe, con innegabili vantaggi redistributivi. E visto il loro scarso numero, non occorre molto per “finanziare” la flat tax, che magari spingerebbe altri a emergere.
Le risorse, tuttavia, non possono venire dall’Iva. Qui la proposta dell’Istituto per un’Iva al 25%, non convince: è ormai pacifico che ogni aumento di aliquota porta un effetto depressivo sui consumi e un calo dello stesso gettito Iva.
Quindi bene parlare di riforma fiscale e di semplificazione, ma non possiamo fermarci all’aliquota. Uno Stato con un carico effettivo di imposizione sulle aziende al 62% - a fronte di un’aliquota nominale al 24% - con banconote nelle cassette di sicurezza e sotto i materassi stimate tra i 100 e 150 miliardi, che non riesce a incassare quel che accerta (la nuova Agenzia entrate-Riscossione ha crediti per 1.058 miliardi, di cui solo il 5% recuperabile), incapace di monitorare la ricchezza dei suoi cittadini ha bisogno di altro, prima. Un fisco diverso e migliore passa dalla capacità di determinare in modo più efficiente la base imponibile, liberando parte della ricchezza prodotta dal lavoro di aziende e persone. Poi ben vengano, sempre in quest’ottica, l’abolizione dell’Irap, svuotata ormai della componente lavoro, piena di contraddizioni e foriera di migliaia di cause, e l’accorpamento di tributi vari, anche per ridurre gli oneri amministrativi. Come ben vengano le aperture alla competizione fiscale per attrarre capitale umano e imprenditoriale nel nostro Paese, facendo leva sull’idea di un fisco più stabile e credibile.
Ecco allora l’altro tassello fondamentale: il miglioramento della macchina amministrativa. Sono pregevoli i passi in avanti in tema di certezza del diritto e di distensione dei rapporti tra fisco e contribuente. Un ulteriore passo potrebbe essere un’estensione della cooperative compliance, già introdotta per le aziende, alle persone fisiche. I contribuenti disposti a sottoporsi a monitoraggio del fisco, magari all’inizio su base volontaria, potrebbero indicare la composizione del proprio patrimonio, a fronte di garanzie sul trattamento fiscale e in ogni caso dell’inapplicabilità di sanzioni. Per tendere alla mappatura del patrimonio degli individui ed evitare che a pagare le imposte siano sempre i soliti noti. Per questo deve continuare il processo di digitalizzazione (fatturazione elettronica e non solo) in quanto, e lo dimostra lo studio Ocse del 2017 «Technology Tools to tackle tax evasion and tax fraud», i Paesi che hanno investito in tecnologia hanno recuperato importantissime somme evase. Digitalizzare vuol dire semplificare: i tempi della giustizia – con la sezione tributaria della Cassazione al collasso – e le 269 ore in media necessarie per espletare un obbligo fiscale, secondo la Banca mondiale, sono un macigno insostenibile. Occorre ripartire dal fallimento del redditometro, che non può significare resa rispetto a questi obiettivi ma anzi deve essere da stimolo per trovare la giusta combinazione che conduca a una vera riforma del fisco. E il compito andrebbe affidato a un (reintrodotto) ministero delle finanze.