Professione

Impostazione punitiva con rischi di speculazioni e aumento delle liti

di Daniele U. Santosuosso

La nuova forma data alla class action dal Parlamento, se da una parte risponde alla meritevole esigenza di dotare di efficaci mezzi di tutela giudiziaria gruppi di cittadini che condividano un medesimo interesse, dall’altra presenta più di un profilo di criticità.

Innanzitutto sulla estensione soggettiva ed oggettiva dell’azione: si elimina ogni riferimento alla nozione di consumatori e utenti (nozione che peraltro è stata sinora interpretata in modo restrittivo dalla giurisprudenza), per introdurre una tutela risarcitoria e restitutoria per tutti i portatori di «diritti individuali omogenei»; si estende poi la tutela alle ipotesi di responsabilità extracontrattuale, oggi limitate alle sole pratiche commerciali scorrette e comportamenti anticoncorrenziali (nuovo articolo 840-bis, commi 1 e 2 del Codice di procedura civile).

Soprattutto su quest’ultimo aspetto, preoccupa il potenziale effetto inflattivo delle controversie, rafforzato dal più limitato onere della prova che resta a connotare tale tipo di azioni (sia pure nella specialità della nuova normativa in materia di prova - articolo 840-quinquies - che pur appare opinabile, per esempio sotto il profilo della discovery delle prove rilevanti ai fini della domanda); ma mette in dubbio anche l’efficacia dell’azione, concentrando in un unico giudizio le più varie domande che, svincolate da un riferimento contrattuale, pur se relative a interessi omogenei, esigerebbero scrutinii maggiormente personalizzati.

Un altro rilevante profilo di criticità attiene all’adesione all’azione, che può avvenire anche nella fase successiva alla sentenza che definisce il giudizio (articolo 840-sexies). La riforma, pur non recependo esattamente l’istituto dell’opt-out di matrice statunitense (per cui i soggetti che possiedono i requisiti indicati dalla corte nell’udienza preliminare di filtro entrano di diritto a far parte della classe, a meno che non decidano di rimanere fuori dalla causa), sovverte in un certo senso i princìpi processuali, con la possibilità di far esaminare la singola domanda dopo che l’accertamento della condotta illecita in generale è stato compiuto dal giudice. E finisce con lo sposare, con effetti per il responsabile ancor più pesanti (e ingestibili per le imprese), una filosofia di stampo punitivo.

E proprio un principio di danno punitivo (che in senso stretto comporterebbe una condanna del resistente proporzionata al fatturato e all’utile conseguito) può essere ravvisato nella norma (articolo 840-novies) che disciplina il compenso derivante dalla quota lite. Cioè una somma che, a seguito del decreto del giudice delegato, il resistente deve corrispondere non solo al rappresentante comune degli aderenti ma anche al difensore del ricorrente. Si tratta di un compenso ulteriore rispetto alla somma che il resistente dovrà pagare a ciascun aderente come risarcimento, in percentuale dell’importo complessivo della condanna, calcolata in base ad una serie di variabili. Anche queste ultime disposizioni espongono l’azione a rischi applicativi, altresì di portata macroeconomica, con possibili derive di natura speculativa e di volano al contenzioso, in un Paese dove la prospettiva da favorire dovrebbe invece essere quella della deflazione del contenzioso.

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