Imposte

Interessi passivi, limiti a rischio sperequazione

di Roberto Iaia


In tema di imposta sul reddito delle società, l’articolo 8a, n. 1, della legge tedesca, nel testo vigente fra il 1996 il 1998, riqualificava, a certe condizioni, gli interessi dovuti da una società residente alla propria capogruppo estera, alla stregua di «utili», oggetto di una «distribuzione dissimulata» e, perciò, indeducibili dal debitore.

Con la sentenza Lankhorst-Hohorst (C-324/00), la Corte di giustizia ha ritenuto che la norma disincentivasse la costituzione di società in un diverso Stato membro, in violazione della libertà di stabilimento (ora, articoli 49 e successivi del Tfue). Per l’effetto, vari ordinamenti hanno uniformato i limiti di deducibilità degli interessi passivi per le fattispecie interne e quelle transnazionali, come ora previsto anche dall’articolo 4 della direttiva Atad e dalle normative domestiche di attuazione.

Un simile esito desta perplessità. La sentenza Lankhorst non ha imposto tout court un ampliamento della disciplina tedesca ai rapporti interni, ma l’ha censurata, giacché sensibile alla mera localizzazione estera della capogruppo, a prescindere dalla natura (elusiva, evasiva o fisiologica) dell’atto da cui derivava l’obbligo alla remunerazione del capitale originariamente ricevuto dal debitore (sentenza, punti 37-38).

In linea con il Beps plan dell’Ocse/G20, il regime europeo dovrebbe colpire atti di “dirottamento” del reddito nazionale attraverso gli interessi, mirati a profittare indebitamente di una imposizione meno severa nell’ordinamento del soggetto che riceve la remunerazione del capitale che aveva in precedenza erogato.

Già in generale, l’articolo 4 Atad non è conforme al principio europeo di proporzionalità, ove eccede quanto necessario al contrasto ai fenomeni di Beps, affidato al superamento di un limite di congruità (il 30% dell’Ebitda), di per sé solo inespressivo di elusione o evasione e che nega rilievo fiscale (anche) a oneri in sé deducibili (ad esempio gli interessi di un mutuo, acceso per superare una carenza di liquidità).

A maggior ragione, la violazione del principio di proporzionalità è ravvisabile per l’applicazione della norma europea agli atti di rilievo interno, ove operi una stessa aliquota per il creditore e il debitore degli interessi, con incidenza fiscale complessiva sull’operazione pari a zero (ad esempio, a un’imposta per gli interessi di 24 dal lato passivo, corrisponde un’imposta di 24 dal lato attivo) e radicale mancanza di perdita di gettito per lo Stato di generazione dell’imponibile.

A quest’ultimo proposito, inoltre, l’articolo 4 sembra disarmonico anche alla luce del principio europeo di eguaglianza, il quale esige che «situazioni diverse non siano trattate in maniera uguale» (per esempio, Corte di giustizia, sentenza Planta Tabak, C-220/17). Come, al contrario, si verifica proprio per gli atti interni, con identica aliquota per il soggetto attivo e passivo del rapporto obbligatorio civilistico, ma governati dallo stesso regime di deducibilità di quelli transnazionali i quali, invece, fanno leva proprio sulle differenze di aliquote fra diverse legislazioni per “muovere” ricchezza dal luogo di origine verso uno Stato dal regime fiscale più mite.

Allora, non sarebbe peregrino stimolare i giudici nazionali a sollevare questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia (articolo 267 Tfue) circa la compatibilità dell’articolo 4 Atad a tali principi “superiori”. Se la Corte non ritenesse concepibile una interpretazione dell’articolo 4 ad essi conforme, sembrerebbe inevitabile una declaratoria di illegittimità della stessa norma della Atad, che si rifletterebbe sulle previsioni interne di attuazione (fra le quali, l’articolo 96 del Tuir in Italia), come già verificatosi a seguito della sentenza Cipriani, in materia di accise (C-395/00).

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