Controlli e liti

Iva non pagata oltre il 14% del limite di punibilità: non c’è tenuità del fatto

La non punibilità scatta solo se la soglia (250mila euro) è superata di poco

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di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

La non punibilità per particolare tenuità del fatto, in ipotesi di omesso versamento Iva, può essere negata se il mancato pagamento ha superato di circa il 14% la soglia di punibilità. È quanto emerge dalla lettura della sentenza della Corte di cassazione 32652 depositata il 2 settembre.

Un contribuente veniva condannato per il reato di omesso versamento Iva. Nel ricorso per cassazione lamentava, tra l’altro, che la Corte di appello non avesse accolto la richiesta di applicazione della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto (articolo 131 bis del Cp) anche in ragione dei motivi di solidarietà umana che avevano spinto l’imprenditore, colpito da crisi economica sfociata nel fallimento, a privilegiare il pagamento delle retribuzioni ai dipendenti rispetto all’Iva. La Corte di appello non riteneva meritevole la richiesta, sia per il non modesto superamento della soglia di punibilità (circa il 14%), sia per la concomitante violazione di compensazione di crediti inesistenti. La Cassazione ha ritenuto corretta la decisione evidenziando che in tema di omesso versamento Iva la causa di non punibilità in questione è applicabile laddove l’omissione abbia riguardato un ammontare di poco superiore la soglia penale (250.000 euro) nella specie non ricorrente. Ciò in quanto il grado di offensività che fonda il reato è stato valutato dal legislatore nella individuazione di una soglia di rilevanza penale.

Sempre in tema di reati tributari, ma con riferimento alla dichiarazione infedele, la Suprema Corte con altra sentenza (la n. 32628/2021) ha ritenuto che l’ammissione alla messa alla prova debba essere necessariamente subordinata all’estinzione del debito tributario. La pronuncia è importante perchè sembra contrastare con un precedente orientamento dei giudici di legittimità (sentenza 3179/2020) secondo cui, invece, non si può subordinare la fruizione del particolare istituto al pagamento del debito tributario.

Nella specie un imprenditore, imputato di dichiarazione infedele dei redditi, avverso il rigetto del Tribunale della predetta richiesta, ricorreva per cassazione. Evidenziava che ai fini della messa alla prova, per ottenere la sospensione del procedimento, la norma (articolo 168 bis del Cp) non richiede obbligatoriamente il risarcimento del danno, prevendendolo solo «ove possibile». In tal senso, peraltro, si era già espressa la Suprema Corte con la sentenza n. 3179/2020, con riferimento al reato di omessa dichiarazione. Nella circostanza, infatti, i giudici rilevarono che la norma impone il risarcimento solo «ove possibile», dovendosi così negare la subordinazione dell’accesso alla procedura al ristoro del danno. Ora, invece, la Cassazione è giunta a conclusioni differenti evidenziando che il risarcimento del danno patito dalla persona offesa, costituisce un presupposto imprescindibile per la corretta applicazione dell’istituto. Nella specie, infatti, l’imprenditore non aveva fatto alcun cenno alla restituzione delle somme sottratte all’erario (persona offesa), venendo così a mancare una condizione necessaria per la fruizione del particolare istituto.

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