Controlli e liti

L’affitto d’azienda a soggetti terzi esclude il regime di società di comodo

La Ctr Molise 285/2/2020 (presidente Di Lorenzo, relatore Cuculo) ha escluso l’operatività della disciplina sulle cosiddette società di comodo nei confronti di una società in nome collettivo che aveva affittato l’azienda a soggetti terzi, per impossibilità dei soci di svolgere direttamente l’attività d’impresa.
La società aveva in precedenza presentato istanza di interpello, rigettata dalla direzione regionale, a cui faceva seguito l’emissione di avviso di accertamento, impugnato dalla contribuente davanti alla Ctp di Campobasso, la quale, con sentenza confermata in appello, riteneva fondate le giustificazioni addotte dalla Snc circa la disapplicazione della disciplina sulle società non operative.
Le società di comodo
Tale disciplina, prevista dall’articolo 30, legge 724/94, è finalizzata a contrastare l’utilizzo della persona giuridica per l’intestazione di beni nella disponibilità dei soci e a disincentivare l’inattività dei veicoli societari. Laddove non venga superato il test di operatività (consistente nel raggiungimento di una determinata soglia di ricavi, determinato applicando delle percentuali ai cespiti detenuti), la società si considera di comodo: ciò comporta l’attribuzione alla società, tra gli altri effetti fiscali pregiudizievoli, di un reddito minimo determinato in base a valori forfettari.
Si tratta di un meccanismo presuntivo, che si fonda sulla correlazione tra il valore di determinati beni patrimoniali e un livello minimo di ricavi e proventi, il cui mancato raggiungimento costituisce elemento sintomatico della natura non operativa della società. Spetta dunque al contribuente fornire la prova contraria e dimostrare l’esistenza di «situazioni oggettive e straordinarie, specifiche e indipendenti dalla sua volontà, che abbiano impedito il raggiungimento della soglia di operatività e di reddito minimo presunto» (Cassazione 21358/2015).
Il discrimine del canone
L’affitto dell’azienda può costituire causa di disapplicazione della norma antielusiva, ma non in tutti i casi. La Cassazione, intervenuta a più riprese sul tema (da ultimo, 10157/2020), ha infatti escluso che l’affitto possa rappresentare di per sé una ipotesi di impossibilità oggettiva di percepire ricavi maggiori. Il contribuente, per la Corte, è tenuto a fornire anche l’ulteriore prova delle ragioni oggettive che non consentivano la pattuizione di un canone più alto, dimostrando che il canone percepito era determinato in misura ragionevole e congrua rispetto alle condizioni economiche del periodo.
Il discrimine è quindi costituito dalla congruità del canone di affitto, che va dimostrata in giudizio dal contribuente. Su tale aspetto la sentenza in commento appare in linea con la giurisprudenza di legittimità, in quanto la Ctr ha riconosciuto, sia pur implicitamente, la congruità del canone di affitto, il cui ammontare non era stato contestato in termini di antieconomicità da parte dell’ufficio delle Entrate.

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