L’inerenza dei costi si misura su attività idonee a produrre utili
Il concetto di inerenza deve caratterizzarsi per la relazione tra la spesa e l’attività di impresa, con la conseguenza che il costo è rilevante per la quantificazione della base imponibile non tanto per la sua diretta connessione con una componente di reddito, ma in virtù della sua riferibilità a un’attività potenzialmente idonea a produrre utili.
A ribadire questo importante principio è la Corte di cassazione, con la sentenza n. 14759 depositata ieri. La vicenda trae origine da un accertamento dell’agenzia delle Entrate con cui a una società italiana, che gestiva alcuni hotel, erano contestati i costi “di regia” sostenuti da un’impresa estera del medesimo gruppo. In estrema sintesi l’azienda italiana riceveva fatture da un’altra società con sede a Londra del medesimo gruppo, preposta alla gestione di servizi comuni per tutte le sedi turistico-alberghiere del gruppo. Si trattava di costi relativi ad attività di marketing, pubblicità, promozione, sviluppo e comunicazione, diretti al posizionamento sul mercato.
La società italiana impugnava l’accertamento: sia la Ctp, sia la Ctr condividevano le tesi difensive annullando l’atto impositivo. In particolare i giudici di appello rilevavano che i costi effettivamente sostenuti erano perfettamente inerenti all’attività d’impresa e pertanto deducibili. Circa l’onere probatorio a carico del contribuente, trattandosi di deduzione di costi, la Ctr valutava positivamente la copiosa produzione documentale: accordi di fornitura, attestazioni di campagne di promozione del brand, utilizzo di diversi sistemi di prenotazione su scala globale, estratti conto con i pagamenti tracciati delle fatture.
L’Ufficio contestava la decisione e quindi ricorreva per cassazione. I giudici di legittimità hanno innanzitutto ricordato che l’inerenza all’attività di impresa delle singole spese indispensabile per ottenere la deduzione va definita come una relazione tra due concetti: la spesa e l’impresa. Il costo assume rilevanza non tanto per la sua esplicita e diretta connessione a una precisa componente di reddito ma in virtù della sua correlazione con un’attività potenzialmente idonea a produrre utili.
Il contribuente, in tale contesto, ha l’onere di dimostrare che un’operazione, anche apparentemente isolata e non diretta al mercato, sia inserita in una specifica attività imprenditoriale e destinata, almeno in prospettiva, a generare un lucro in proprio favore. Nella specie, l’Ufficio non aveva messo in dubbio la vantaggiosità o la congruità delle spese, ma si era limitato a contestare la genericità dei documenti fiscali, senza rendersi conto che, a monte di tutto, c’era un contratto di commercializzazione. Inoltre le autofatture emesse dalla contribuente facevano specifico riferimento sia a tale contratto sia ai servizi erogati, corrispondenti a quelli pattuiti.
Secondo la Suprema Corte, i servizi fatturati risultavano così perfettamente in linea con l’attività economica svolta dalla società, stante la necessità di raccordo tra gli alberghi di lusso appartenenti alla medesima catena. Di conseguenza i costi rispettavano il criterio di inerenza e quindi è stato rigettato il ricorso dell’agenzia delle Entrate.