Il CommentoAdempimenti

L’ingiusto vantaggio dei termini lunghi di decadenza

Riposizionare sullo stesso piano diritti e doveri di uffici e contribuenti

di Paola Coppola

Il Governo in queste ore sta chiedendo al Paese molti sacrifici e sta certamente facendo il possibile per fronteggiare la più grave emergenza sanitaria, economica, finanziaria di questi tempi. Non può che condividersi la scelta di indirizzare le risorse a chi ne ha più bisogno, ma senza concedere vie di fuga, o “leve di vantaggio” a taluni a danno di altri.La parità di trattamento, l’uguaglianza, la solidarietà, la perequazione nelle regioni colpite, la tutela della salute sono l’unica via di salvezza. Non si possono ammettere “deviazioni” da questa direzione.

Ecco perché non può accettarsi il “vantaggio ingiusto” che si è venuto a determinare in favore dell’agenzia delle Entrate e degli altri enti impositori con la“proroga dei termini di prescrizione e decadenza relativi all’attività degli enti impositori” di ben due anni rispetto all’ordinario termine per procedervi (articolo 67, comma 4, Dl 18/2020). In virtù di questa proroga, gli accertamenti di imposte dirette, Iva e Irap dell’anno 2015 potranno essere effettuati entro il 31 dicembre 2022, e non nel termine ordinario del 31 dicembre 2020; termine che, a regime, a partire dal 2016, è stato posticipato (legge 158/2015) al 31 dicembre del quinto (e non più al quarto) anno successivo a quello della presentazione della dichiarazione e fino al 31 dicembre del settimo anno, (e non più al quinto), nei casi di dichiarazione omessa. Gli uffici hanno avuto, e potrebbero continuare ad avere, quindi, un lungo arco temporale per operare secondo i principi di economicità ed efficienza (articolo 97, Costituzione).

Con il Cura Italia, invece, il termine di decadenza si “allunga” di un biennio, senza alcuna esplicita eccezione nell’alveo dei controlli, sin dall’annualità in scadenza (2015), e così a seguire. La “novità” si ricava dal rinvio che l’articolo 67, comma 4 del Dl 18/2020 opera all’articolo 12 del decreto legislativo 159/2015 che, a regime, dispone la sospensione dei termini dell’attività degli uffici impositori, compresi quelli di prescrizione e decadenza, di due anni per i casi di eventi eccezionali ma “localizzati” (terremoti, alluvioni, ecc.); ipotesi che non è certo paragonabile al caso straordinario della Covid-19.

Il tutto, in deroga al divieto imposto dallo Statuto del contribuente della proroga dei “termini di prescrizione e di decadenza per gli accertamenti di imposta”, ai principi generali, ai valori costituzionali dell’uguaglianza e della parità delle armi (nel procedimento) e a quel dovere di stare tutti “pancia a terra con il coltello tra i denti” che collide e stride con chi, in queste ore e minuti, sta disperatamente continuando a fare il proprio dovere.

Ma quale potrebbe essere la risposta alla domanda del perché solo i dipendenti delle Entrate e altri enti impositori dovrebbero avere questo vantaggio temporale rispetto a tutti gli altri dipendenti pubblici? E quale differenza di impegno c’è rispetto a quello richiesto a dipendenti privati, professionisti o imprese che stanno continuando ad assistere i propri clienti o a lavorare per non interrompere la produzione di beni e servizi essenziali (e non)? Non se ne vede alcuna. Tutti siamo al servizio del Paese, senza avere “2 anni in più” per operare.

Ciò che “si vede” è il “vantaggio ingiusto” degli enti impositori che pesa ancor di più se si rapporta alle asimmetrie e diseguaglianze che si registrano nel ginepraio di norme che, a oggi, dispongono le sospensioni dei termini di versamento di tributi, contributi, ecc. (taluni al 30 aprile, altri al 31 maggio); o le sospensioni delle udienze o degli atti processuali per gli Uffici “con 45 giorni in più” rispetto alle sospensioni per le (medesime) udienze e atti processuali concesse alle parti private.

Per gli atti processuali tributari, perdippiù, senza potersene cogliere la ratio, dopo l’abrogazione di talune disposizioni d’urgenza già emanate ai medesimi fini (Dl 11/2020, articolo 1 e 2), la sospensione dei termini processuali è stata disposta limitatamente “al ricorso (di primo grado) e la mediazione tributaria” (articolo 83, comma 2, ultimo periodo, Dl 18/2020). Ma che significa quell’inciso? In questi giorni si stanno susseguendo una serie di circolari e vademecum dei vari Tribunali, per ordinare le casistiche e dare un senso alle norme in ragione del principio (necessario) per cui la sospensione dei termini non può che estendersi, in via generalizzata,a tutti gli atti processuali e, quindi, anche a tutti quelli tributari, comprese le impugnazioni (in grado di appello).

Regole non uniformi e non coordinate, contribuiscono ad apportare criticità non sostenibili al sistema dei procedimenti e dei processi tributari già solo per le difficoltà di computo e di verifica della tempestività di ricorsi e impugnazioni a carico delle parti e dei giudici aditi; il tutto, in un momento che richiederebbe l’intervento fermo di autorità decidenti “indipendenti” e non - come si è costretti a osservare - di quelle che, così muovendosi, sembrano voler porre rimedio alle difficoltà del sistema dei controlli, e non a investire risorse per potenziarlo. Non è opportuno dare questa immagine del Paese. Non se lo meritano nemmeno i funzionari degli Uffici impositori o di riscossione che, al pari degli altri, sono certamente pronti ai loro compiti d’ufficio.

E allora è tempo di invitare il Governo a tornare indietro per riposizionare sullo stesso piano, i “diritti” con i “ doveri” degli uffici, dei cittadini, delle imprese, dei professionisti prima della conversione del decreto; in caso contrario, ferma l’incostituzionalità di queste norme discriminatorie per violazione del principio di uguaglianza, sarà difficile scongiurare il rischio di inevitabili disaffezioni al dovere solidaristico che è alla base del dovere alla contribuzione.