La riforma Trump ha effetti pesanti sulle operazioni intercompany
Riforma fiscale statunitense con possibili ripercussioni sulle operazioni intercompany. Dopo aver archiviato il cosiddetto border tax adjustment del primo progetto repubblicano, le nuove misure proposte dalla Camera e dal Senato Usa potrebbero colpire i costi sostenuti dalle imprese americane con consociate estere.
Per la Camera si tratterebbe di una excise tax del 20% dovuta da società residenti negli Stati Uniti sugli acquisti intercompany di beni e servizi. Sono escluse alcune categorie di acquisti e/o costi tra cui gli interessi, gli acquisti di determinate commodity, i servizi remunerati senza mark-up (nel caso di opzione negli Usa per il cosiddetto service cost method) e alcuni pagamenti soggetti a ritenuta (ad esempio le royalty, ma con alcune limitazioni).
Così, ad esempio, una società americana che acquista prodotti da un fornitore di gruppo in Italia per 200 milioni di dollari, vedrebbe i costi di acquisto lievitare in virtù della excise tax per 40 milioni, con evidenti ripercussioni finanziarie e di competitività. La tassa, indeducibile, sarebbe dovuta qualora le operazioni intercompany superassero i 100 milioni di dollari. In alternativa, sarebbe possibile per la società estera che riceve i pagamenti, optare per la tassazione negli Usa (Effective Connected Income election) di un importo corrispondente alla excise tax al netto di costi determinati in maniera forfettaria. Si tratterebbe di dichiarare una sorta di stabile organizzazione dell’impresa estera negli Stati Uniti.
Tale alternativa sembrerebbe vantaggiosa rispetto al pagamento della
La excise tax, infatti, inciderebbe sui margini delle società statunitensi, il che potrebbe richiedere una revisione delle policy. Si pensi ad esempio al caso delle vendite di prodotti dall’Italia a distributori Usa per cui il transfer pricing è basato sull’applicazione del Transactional Net Margin Method (Tnmm). In tale ipotesi il margine operativo potrebbe essere ridotto della excise tax, richiedendo una diminuzione dei prezzi per mantenere il margine target previsto.
Anche con riferimento all’ipotesi di tassazione in capo a una stabile organizzazione non mancherebbero le incertezze. Il reddito americano non avrebbe giustificazione dal punto di vista delle funzioni e dei rischi, per cui sarebbe difficilmente difendibile nel Paese estero (Italia). Il tutto creerebbe peraltro problemi di doppia imposizione di difficile risoluzione: ad esempio, il rischio che l’Italia non riconosca l’esistenza della stabile e quindi non ammetta un credito per le imposte da questa assolte e la difficile recuperabilità della branch profit tax riscossa dagli Usa sugli “utili” rimessi all’Italia.
Il Senato ha ultimato nei giorni scorsi una controproposta (base erosion minimum tax) secondo cui un’impresa che importa beni o servizi da parti correlate rischierebbe un’addizionale pari all’eventuale differenza positiva tra un’imposta nozionale del 10% ricalcolata su una base imponibile al lordo dei costi intercompany e il carico imponibile ordinario. La disposizione sarebbe in questo caso applicabile alle società con ricavi superiori a 500 milioni di dollari e con costi intercompany superiori al 4% dei costi deducibili.
Anche la proposta del Senato richiederebbe di considerare eventuali incompatibilità con i trattati internazionali e di svolgere riflessioni sul transfer pricing. La base erosion minimum tax potrebbe avere natura di imposta sul reddito (a differenza della excise tax) e quindi non incidere direttamente sui margini utilizzati per verificare i prezzi di trasferimento, tuttavia andrebbe riesaminata la sostenibilità della supply chain. Camera e Senato dovranno ora trovare un’intesa in tempi rapidi se si vorranno rispettare i termini di entrata in vigore programmati (dal 2019).