La scelta e il rischio del conflitto fiscale con gli Stati Uniti
La comunicazione della Commissione Europea sulla fiscalità dell’economia digitale è segnata da un’intrinseca contraddizione. E infatti, la Commissione, dopo aver lungamente sottolineato che, per giungere a una fair taxation dei colossi digitali, è necessario un ripensamento complessivo della fiscalità internazionale, e che a tal fine ogni intervento deve obbligatoriamente transitare da un approccio condiviso a livello globale (non a caso viene più volte richiamato il lavoro che sta svolgendo l’Ocse in materia e che verrà presentato al G20 nel corso del 2018), conclude tuttavia nel senso che, in attesa della definizione di tale approccio condiviso, l’Unione Europea non possa restare inerte e debba intervenire unilateralmente. Ed ecco la genesi delle tre proposte «a breve termine» avanzate dalla Commissione (la famosa equalisation tax di Tallinn, una ritenuta sulle «transazioni digitali» e un’imposta ad hoc sui redditi delle imprese con una «presenza economica significativa» che forniscano servizi digitali e di marketing online), proposte che nascono monche per stessa ammissione del proponente, il quale ne evidenzia la dubbia compatibilità con le convenzioni fiscali e gli obblighi previsti dagli accordi internazionali in tema di libero commercio stipulati dagli Stati membri e dalla stessa Ue in seno all’Organizzazione mondiale del commercio. E non è un caso che queste proposte, sostanzialmente, replichino quelle contenute nel Rapporto sulla tassazione dell’economia digitale presentato nell’ottobre 2015 dall’Ocse, che tuttavia ne sconsigliava l’adozione proprio alla luce della loro incompatibilità con l’attuale contesto internazionale.
Ma andiamo con ordine. La prima proposta è quella di un tributo sul fatturato delle imprese digitali (alias equalisation tax) e riprende, per l’appunto, l’idea lanciata dai ministri delle finanze di Italia, Spagna, Francia e Germania a Tallinn. Un simile tributo, del quale sarebbe finanche dubbia la natura (come già chiarito in precedenti commenti, esso potrebbe configurarsi come accisa o imposta sul reddito) sembrerebbe presentare profili di incompatibilità con il Gatt ed il Gats, ossia i trattati internazionali sulle tariffe ed il commercio di beni e servizi, e potrebbe costituire una sorta di duplicazione dell’Iva. Inoltre, non pare neanche rispondente al canone della tassazione al netto dei costi comunemente applicato nell’ambito della fiscalità d’impresa.
Le altre due proposte – segnatamente, la ritenuta sulle «transazioni digitali» e il nuovo criterio di collegamento della «presenza economica significativa» – si pongono in contrasto con il principio ripreso nella totalità delle convenzioni contro le doppie imposizioni adottate dagli Stati membri, secondo cui la tassazione dei profitti realizzati da imprese non residenti si giustifica fintantoché queste ultime siano dotate di una presenza fisica stabile nello Stato o quantomeno di un agente che concluda contratti per loro conto (vale a dire di una «stabile organizzazione»). Inoltre, le suddette proposte presentano molteplici complessità di carattere pratico: basti pensare all’individuazione delle «transazioni digitali» da assoggettare a ritenuta, e alla selezione delle soglie che configurano una «presenza economica significativa» (nonché alle modalità tramite cui le amministrazioni fiscali possa verificare il superamento di simili soglie).
Insomma, una volta conclusa la lettura del documento della Commissione, resta il dubbio se questo sia semplicemente un monito alla comunità internazionale per addivenire a un approccio comune per la tassazione dei colossi del web, oppure sia il primo passo di un “conflitto fiscale” con i Paesi dove i detti colossi sono stabiliti – segnatamente, gli Stati Uniti – per ora restii all’approvazione di misure di contrasto al settore. Non è infatti un caso che gli Stati Uniti non abbiano sottoscritto il trattato multilaterale elaborato in sede Ocse proprio al fine di arginare i fenomeni di pianificazione fiscale da parte delle multinazionali.