Controlli e liti

Le indagini sui conti correnti possono provare l’esistenza di un’attività in nero

Non è automatico il passaggio dall’attività istruttoria all’accertamento

di Dario Deotto

I dati bancari acquisiti a norma dell’articolo 32 del Dpr 600/1973 (e, per l’Iva, dell’articolo 51 del Dpr 633/1972) possono essere utilizzati per dimostrare l’esistenza di un’eventuale attività – d’impresa o professionale – occulta.
Lo stabilisce la Corte di Cassazione, con l’ordinanza 11915/21, depositata il 6 maggio. La Corte precisa poi che le movimentazioni bancarie possono essere utilizzate per quantificare il reddito dichiarato da chi svolge “alla luce del sole” un’attività, con onere della prova che spetta al contribuente.
Concentrandoci sulle prime affermazioni, è fin troppo chiaro che le norme sulle indagini finanziarie (articoli 32 del Dpr 600/1973 e 51 del Dpr 633/1972) si collocano sul piano istruttorio, cioè di un qualcosa, in sostanza, che sta prima rispetto all’atto di accertamento, il quale può risultare “eventuale” rispetto alla stessa attività istruttoria condotta dall'ufficio. Le norme in argomento, infatti, risultano dirette semplicemente a far acquisire all'Amministrazione “conoscenze fiscalmente rilevanti” ai fini dell’eventuale successivo accertamento. L’attività conoscitiva ha una evidente autonomia rispetto all’atto di accertamento vero e proprio.
Questo risulta chiaramente anche dal dettato normativo dalle norme in argomento, le quali stabiliscono che: «le richieste fatte e le risposte ricevute devono risultare da verbale sottoscritto anche dal contribuente o dal suo rappresentante… Il contribuente ha diritto ad avere copia del verbale».

Le disposizioni risultano inequivocabili, peraltro, nel non disciplinare affatto un onere di prova addossato sul contribuente (che farebbe ritenere che si tratti di presunzione legale relativa), ma la necessità che quest’ultimo possa dare preventiva dimostrazione circa l’effettiva “consistenza” dei dati acquisiti dagli uffici dell’Amministrazione, di modo che gli uffici possano escludere dall’eventuale accertamento i dati per i quali vengono fornite idonee giustificazioni. Dove, se non nell’interlocuzione necessaria preventiva con il contribuente, quest’ultimo, ad esempio, potrebbe dare conto (non prova) del beneficiario di un prelevamento? Questo anche se fin qui la stessa Corte di Cassazione ha negato, addirittura, la necessità dello svolgimento del contraddittorio preventivo con il contribuente in relazione alle indagini finanziarie.Ed è proprio questo il punto: le norme in argomento disciplinano dunque delle “indagini” che possono, come nel caso dell’ordinanza 11915/21, determinare che il soggetto svolge un’attività completamente “in nero”.

Ma non si tratta, appunto, di norma legittimante ex se l’accertamento, come si è riportato anche ieri su Ntplusfisco, a proposito dell’ordinanza n. 11696/21. Nel caso in questione, l'ufficio poteva forse effettuare l'accertamento sulla base dell'articolo 32 del Dpr 600/1973? Certamente no, proprio perché il dato normativo dello stesso articolo 32 (così come dell’articolo 51 del Dpr 633/1972) stabilisce che le movimentazioni per le quali il contribuente non è in grado di fornire giustificazioni sono poste a base di ben precise attività di rettifica ed accertamento, e cioè quelle disciplinate dagli articoli 38, 39, 40 e 41 del Dpr 600/1973 (per le imposte sui redditi) nonché dagli articoli 54 e 55 del Dpr 633/1972 (per l'Iva). Ad esempio, nei confronti del contribuente che non ha mai dichiarato nulla al Fisco, l’ufficio emetterà l’accertamento sulla base dell’articolo 39, comma 2, del Dpr 600/1973, cioè un accertamento induttivo cosiddetto “puro”. Questa è una banale conferma che non esistono gli “accertamenti bancari”, né tantomeno – come si è riportato più volte – esiste una presunzione di legge che inverte l’onere della prova e lo attribuisce sul contribuente.Si tratta soltanto di attività istruttoria. Di semplice attività istruttoria…

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