I temi di NT+Modulo 24

Rettifiche del Fisco, perché le presunzioni legali trovano un limite nelle regole di tassazione

Il rapporto che lega le norme regolatrici delle presunzioni applicabili in sede di accertamento con le norme che regolano le fattispecie sostanziali

di Massimo Basilavecchia

È opportuno tornare a riflettere su un tema forse non abbastanza indagato e spesso addirittura estraneo alla logica di talune decisioni giurisprudenziali. Si tratta del rapporto che lega (o dovrebbe legare) le norme regolatrici delle presunzioni applicabili in sede di accertamento con le norme che regolano le fattispecie sostanziali, disegnando la disciplina della base imponibile di un’imposta.

Il discorso riguarda in particolare le presunzioni semplici, che autorizzano l’ufficio ad accertare l’esistenza di materia imponibile sulla base di elementi gravi, precisi e concordanti (aggettivi presenti nell’articolo 2729 Codice civile). Per le presunzioni legali, infatti, la coerenza con la disciplina sostanziale dovrebbe essere scontata, a meno che non si debba ravvisare una contraddittorietà nelle stesse scelte del legislatore. Solo le presunzioni semplici, legittimando un’attività integrativa da parte dell’amministrazione finanziaria su un campionario di ipotesi ricostruttive tendenzialmente illimitato, sia pure sottoposta al controllo del giudice, pongono il problema di stabilire quando l’accertamento di determinati fatti ignoti, sulla base di fatti noti, debba arrestarsi di fronte all’esistenza di norme sostanziali che fissano regole incompatibili con quella ricostruzione o con gli effetti che da essa si intendono ricavare.

Tra le tante decisioni della Corte di cassazione in materia di accertamenti presuntivi, due recenti ordinanze meritano di essere segnalate perché dimostrano come l’approccio al tema possa essere molto diverso. Peraltro, è sempre bene ricordare che le osservazioni critiche sull'interpretazione delle norme che la Corte di cassazione fornisce dovrebbero sempre tenere conto che il giudice di legittimità interviene in ultima battuta e che l’oggetto della sua analisi è un accertamento di fatto già compiuto dal giudice di merito; in altre parole, l’interpretazione della Corte non è asettica ma al contrario influenzata dalla validità e dalla coerenza dell’analisi compiuta dalla sentenza impugnata.

Ciò premesso e tornando ai due esempi prescelti, la prima delle due decisioni – n. 24255/2021 -afferma, sulla scia di un indirizzo già manifestatosi da qualche anno, che in tema di accertamento dei compensi percepiti da un professionista può considerarsi provata per presunzione probabilistica la percezione degli stessi – che è condizione essenziale per la loro tassabilità – nel momento in cui la prestazione resa è conclusa. L’amministrazione può limitarsi ad accertare questa circostanza – che cioè un’attività professionale sia stata portata a compimento – e legittimamente desumere che il compenso relativo sia stato percepito, sulla base di una regola di comune esperienza per la quale chi compie una prestazione se ne assicura il compenso in tempi rapidi. L’onere della prova contraria a questo punto si ribalterebbe sul contribuente, il quale dovrebbe dimostrare, sempre attraverso elementi indeterminati (ma intuibili: azioni di recupero giudiziale o stragiudiziale), la mancata erogazione del compenso.

Al riguardo, l’ordinanza assume che l’equivalenza «prestazione conclusa – compenso incassato» sia legittimata dal carattere analitico induttivo dell’accertamento, operato in base all’articolo 39 primo comma lettera d) Dpr. 600/73, nonché dall’articolo 2729 Codice civile; e che il ribaltamento dell’onere della prova non addosserebbe al contribuente l’onere di una prova negativa.

Al di là di quest’ultima affermazione (che non può essere valutata in questa sede ma che certamente appare tutt’altro che persuasiva, così come l’idea che di fronte ad un ritardo nel pagamento il professionista si attivi immediatamente per il recupero), le conclusioni della Suprema corte non sono condivisibili in astratto (anche se la vicenda che aveva visto inerte il contribuente in sede di contraddittorio preventivo, può renderle comprensibili nel caso concreto). Essa, peraltro, si inquadra in una più ampia e discutibile tendenza che, anche ai fini Iva, tende a svalutare la rilevanza del momento finanziario al fine dell’accertamento della sussistenza di una prestazione di servizi imponibile. Infatti, pur nel rispetto apparente del principio di cassa, presumere la percezione nello stesso momento nel quale la prestazione professionale è ultimata significa ribaltare, oltre che l’onere della prova, anche quella regola sostanziale fondamentale, per la quale la percezione del compenso è elemento integrante imprescindibile della fattispecie imponibile.

Anche legittimando l’uso delle presunzioni semplici, in altre parole, non si può avallare una conclusione che contraddice la regola sostanziale; il ricorso alle presunzioni semplici deve tener conto del dato normativo, e, in un contesto che considera imponibili solo le prestazioni remunerate, la presunzione semplice non può surrogare la mancanza di una presunzione legale, con la quale il legislatore, se lo avesse voluto, avrebbe “tamponato” le possibili falle del sistema in fase applicativa, stabilendo se e quando un compenso si presume incassato.

Se così non fosse, si avrebbe, a dispetto della tassatività delle fattispecie imponibili, una sostanziale integrazione analogica delle regole sostanziali, nel cui ambito già operano presunzioni legali, là dove il legislatore le abbia ritenute opportune.E del resto nemmeno convince la lettura dell’articolo 39 primo comma lettera d) Dpr 600/73; le presunzioni semplici ivi invocate nel contesto della rettifica analitico - induttiva, infatti, sono esemplificate con riferimento alle condizioni di esercizio dell’attività; non sembra si possa pertanto considerare il dato isolato della conclusione di una prestazione, se non confortato dall’esistenza di altre gravi incongruenze.

L’attenzione per il dato normativo sostanziale si riscontra invece nel secondo caso, quello deciso dall’ordinanza n. 25474/2021. In quella vicenda, l’accertamento dei ricavi conseguiti da una società era basato su apporti finanziari di un socio privo di redditi propri che l’amministrazione finanziaria aveva presunto dissimulare ricavi non dichiarati. Il dato della mancanza di altri redditi del socio era stato ritenuto insufficiente a fondare la presunzione già dalla Commissione tributaria regionale e la sentenza viene confermata dalla Suprema corte. Peraltro, l’ordinanza non si limita a confermare la correttezza della decisione di appello, in punto di ricorrenza di elementi presuntivi gravi precisi e concordanti, ma opportunamente ha cura di precisare che una presunzione di questo tipo non può operare, in mancanza di una presunzione legale nell’articolo 85 Tuir che stabilisca la possibilità di riqualificare come ricavi apporti finanziari del socio (a titolo di finanziamento o di apporto in conto capitale).

Se ne può ricavare un principio, per il quale un limite implicito di principio all’impiego di presunzioni semplici deve essere ricavato dalla compatibilità delle stesse con la disciplina sostanziale del tributo, la quale non può essere aggirata; le presunzioni semplici possono integrare, in fase applicativa, il disposto normativo, ma non possono surrettiziamente diventare sostituire quelle presunzioni legali che il legislatore non ha inteso stabilire.

Questo articolo fa parte del nuovo Modulo24 Accertamento e riscossione del Gruppo 24 Ore. Leggi gli altri articoli degli autori del Comitato scientifico e scopri i dettagli di Modulo24.