Si può chiedere il rimborso delle imposte pagate all’estero in via definitiva
Sia la normativa fiscale domestica che le disposizioni contenute nelle convenzioni contro le doppie imposizioni mirano a regolare l’esercizio della potestà impositiva al fine di eliminare il rischio di una doppia imposizione lesiva del principio di capacità contributiva costituzionalmente garantito. Va, pertanto, considerato legittimo il credito per le imposte assolte all’estero, versate a titolo definitivo, chiesto a rimborso dal contribuente nella dichiarazione dei redditi comprovato dalle risultanze e dei dati reddituali certificati dal sostituto d’imposta nel modello di Certificazione unica . Questo il principio che emerge dalla sentenza pronunciata dalla Ctp Milano n. 4301/2019 (pres. Di Rosa – rel. Chiametti) , depositata il 16 ottobre 2019 .
Il caso
La vicenda esaminata dai giudici tributari milanesi concerneva l’impugnazione da parte di una contribuente, lavoratrice dipendente di una società di capitali italiana , della cartella di pagamento emessa dall’agenzia delle Entrate in esito ad un controllo formale del modello 730 con cui veniva disconosciuto il credito per le imposte versate anche all’estero e relativo all’attività lavorativa svolta dalla ricorrente nel Regno Unito per il periodo in cui aveva prestato la propria attività in qualità di lavoratrice distaccata presso la consociata estera inglese. I motivi di impugnazione erano sostanzialmente i seguenti:
a) veniva contestata l’omessa notifica della prima richiesta di produzione dei documenti ( ex articolo 36 ter, comma 3, del Dpr 600/1973) necessari ai fini del controllo documentale (in particolare con riferimento al credito per le imposte versate nel Regno Unito che l’Ufficio aveva disconosciuto senza fornire, a suo dire, una valida motivazione); ciò in violazione dei principi dello Statuto dei diritti del contribuente in base ai quali i rapporti fra fisco e contribuenti «sono improntati al principio della collaborazione e della buonafede , disponendo che gli uffici possono “determinare i crediti d’imposta aspettanti in base ai dati risultanti dalle dichiarazioni e ai documenti richiesti ai contribuenti»;
b) veniva rammentato, dopo aver richiamato e ricostruito la normativa domestica e convenzionale, il divieto di doppia imposizione e quindi invocata l’applicazione del meccanismo del credito d’imposta ( ex articolo 165 del Tuir); il mancato riconoscimento dello stesso avrebbe rappresentato una violazione dei principi di uguaglianza e capacità contributiva sanciti dagli artt. 3 e 53 della Costituzione.
L’Ufficio, dal canto suo, sosteneva in giudizio la legittimità del proprio operato rifacendosi all’articolo 15 della Convenzione 329 del 5 novembre 1990, sottoscritta tra il Governo italiano e il Regno Unito; in particolare, secondo parte pubblica, il fatto che nel Regno Unito l’anno fiscale inizi il 6 aprile e finisca il 5 aprile dell’anno successivo, era sufficiente per ritenere che la ricorrente avesse percepito redditi di lavoro soggetti a doppia imposizione soltanto da aprile a giungo dell’anno in contestazione , per soli 85 giorni, mentre, a norma della citata convenzione, le remunerazioni con il meccanismo del credito d’imposta spetterebbero unicamente per i periodi di lavoro all’estero superiori a 183 giorni.
Le ragioni di accoglimento del ricorso
I giudici decidono di accogliere in toto il ricorso e le motivazioni addotte dalla ricorrente. Preliminarmente la Ctp riconosce la violazione della procedura di cui al precedente punto a), constatata l’omessa notifica della richiesta di documenti prescritta dalla norma, in ossequio ai principi statutari ( legge 212/2000). Quanto al merito, poi, i giudici rilevano l’illegittimità della pretesa fiscale in quanto derivante dal disconoscimento del credito per le imposte pagate nel Regno Unito nell’anno contestato e che la contribuente aveva provveduto a recuperare legittimamente tramite il Modello 730 dei redditi dell’anno successivo. Il Collegio puntualizzava che , nonostante il periodo di lavoro svolto all’ estero, la contribuente si era qualificata fiscalmente residente in Italia e qui veniva sottoposta a tassazione ( articoli 2 e 3 del Tuir).
Nel caso di specie, il reddito di lavoro prodotto all’estero dalla ricorrente ed imponibile in Italia (world-wide income taxable principle) era stato determinato dal datore di lavoro (sostituto d’imposta) conformemente al disposto dell’articolo 51, comma 8-bis del Tuir che, in deroga alle ordinarie regole di determinazione del reddito di lavoro dipendente, dispone che : «Il reddito di lavoro prestato all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto, da dipendenti che nell’arco di dodici mesi soggiornano nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni, è determinato sulla base delle retribuzioni convenzionali definite annualmente con decreto del ministero del Lavoro e della previdenza sociale ...». Pertanto la ricorrente aveva subito una palese duplice imposizione dei medesimi redditi da lavoro dipendente percepiti in relazione all’attività svolta:
1) l’imposizione in Italia in ragione della sua residenza fiscale nel territorio italiano;
2) l’imposizione nel Regno Unito quale luogo di produzione del reddito.
Seppur il reddito da lavoro dipendente svolto all’estero ( già tassato in Italia) era da considerarsi legittimamente assoggettato ad imposizione fiscale nel Regno Unito quale paese in cui l’attività lavorativa era stata svolta, al fine di eliminare la doppia imposizione per i soggetti che lavorano all’estero, la normativa , sia italiana che convenzionale, ha previsto il metodo del credito d’imposta (articolo 165 del Tuir). Alla luce di tali considerazioni e sulla base delle risultanze e dei dati reddituali certificati dal sostituto d’imposta (modello Cud) i giudici decidono per la legittimità della richiesta avanzata dalla ricorrente finalizzata ad ottenere il rimborso del credito per le imposte assolte all’estero.
Ctp Milano, sentenza 4301 del 16 ottobre 2019