Società di comodo, presunzione vincibile anche con la prova dell’attività
L’orientamento recente è confermato ed è in linea con la delega fiscale
La prova contraria avverso la presunzione delle società di comodo è data non solo da oggettive situazioni che hanno impedito di conseguire i ricavi minimi, ma anche dimostrando la sussistenza di un’attività imprenditoriale effettiva. Così si è pronunciata la Cassazione (ordinanza 13336/2023), confermando il suo filone giurisprudenziale più recente (pronunce 9339/2023, 4946/2021, 26219/2021), che recepisce quanto da tempo si sostiene sul Sole 24 Ore e va nella prospettiva del Ddl di riforma fiscale, che si propone di rivedere la disciplina delle società non operative, colpendo solo gli enti che non svolgono effettiva attività commerciale.
L’ordinanza (ma anche quelle citate) risulta chiara sul punto: la normativa dell’articolo 30 della legge 724/1994 «intende disincentivare la costituzione di società di comodo, ovvero il ricorso all’utilizzo dello schermo societario per il raggiungimento di scopi eterogenei rispetto alla normale dinamica degli enti collettivi commerciali». Viene riportata anche la circolare delle Entrate n. 5/E/2007, che ha precisato che la disciplina ha sempre voluto colpire quegli “involucri societari” ai quali vengono intestati beni ritenuti non afferenti un’attività economica.
Poi la Corte si “perde” un po’, facendo riferimento all’elusione (si tratta chiaramente di una presunzione di evasione) e alle oggettive situazioni che hanno impedito il conseguimento dei valori minimi come possibile prova contraria – nel caso specifico - del contribuente, però oramai si può dire che anche la giurisprudenza incomincia a delineare l’effettiva “latitudine” della disciplina delle società di comodo.
La norma (articolo 30 della legge 724/1994), in sostanza, contempla due presunzioni legali, come si è sempre riportato sul Sole 24 Ore: la prima collega al test di operatività il fatto ignorato della non operatività del soggetto; se a questa presunzione non si fornisce la prova contraria, trova allora applicazione la successiva presunzione di cui al comma 3 del citato articolo 30, secondo cui, per gli enti non operativi, «si presume che il reddito del periodo d’imposta non sia inferiore a …» (oltreché quella, stabilita dal successivo comma 3-bis, sul valore della produzione netta ai fini Irap “minima”).
Sono, in sostanza, presunzioni legali cosiddette a catena.
Sicché il contribuente può certamente dimostrare, attraverso ad esempio i bilanci, di svolgere un’effettiva attività economica (se si riflette, le oggettive situazioni che hanno impedito il conseguimento dei valori minimi andrebbero a comprimere – illegittimamente - la prova contraria).
Se tale prova contraria viene fornita non può, evidentemente, trovare applicazione la seconda presunzione, riferita alla dichiarazione dei valori minimi, trattandosi – come è stato riportato – di presunzioni legali “a catena”.