Controlli e liti

Spese di manutenzione automezzi, stop alla deduzione senza la targa in fattura

L’ordinanza 27116 della Cassazione nega l’inerenza dei costi sostenuti

Non risultano deducibili, in quanto non inerenti, le spese sostenute per manutenzioni e riparazioni su automezzi qualora le fatture non rechino l’indicazione delle targhe degli autoveicoli oggetto di riparazione. Così si è espressa la Cassazione con l’ordinanza 27116/2020 depositata venerdì 27 novembre, nell’ambito di un accertamento riguardante spese sostenute per pneumatici e pezzi di ricambio ritenute indeducibili.

Secondo l’Agenzia, il contribuente non aveva provato che le spese sostenute fossero correlate agli automezzi di proprietà della società accertata, posto che le fatture di acquisto non recavano l’indicazione del tipo e della targa dei veicoli. Sul punto, nonostante i giudici della Ctr si fossero orientati verso il riconoscimento della deducibilità di tali spese, la Cassazione ha accolto l’impugnazione dell’agenzia delle Entrate. Questo perché, secondo i giudici di legittimità «la prova dell’inerenza di un costo quale atto d’impresa… incombe sul contribuente in quanto tenuto a provare l’imponibile maturato». Prova che nel caso di specie non sarebbe stata fornita in quanto sarebbero stati forniti elementi «privi di rilevanza ai fini della dimostrazione della loro destinazione allo svolgimento dell’attività d’impresa».

Questa vicenda dell’onere della prova, che graverebbe (soltanto) sul contribuente per ammettere la deducibilità della spesa o di un costo, specialmente in punto di inerenza, risulta frutto di un grande fraintendimento. Non vi possono essere dubbi, infatti, che nel rapporto tributario valgono le regole dell’articolo 2697 del Codice civile («chi vuol fare valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento»). Questo significa che è l’Agenzia che risulta tenuta a fornire la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa. In pratica, affermando, con l’emanazione dell’atto di accertamento, l’esistenza dell’obbligazione tributaria, l’Amministrazione assume la posizione di creditore nei confronti del contribuente, con la conseguenza che riveste in sede giudiziale il ruolo di attore in senso sostanziale, sul quale grava l’onere di provare la fondatezza della propria pretesa. Questa è la regola: chiaramente se il contribuente presenta un’istanza di rimborso, è su di lui, sempre in ragione della regola, che incombe l’onere probatorio.

Il fatto che la giurisprudenza della Cassazione continui ad affermare, invece, che l’onere della prova per la deduzione di un componente negativo di reddito (nella determinazione di quello d’impresa) gravi sul contribuente, costituisce un’altra di quelle manipolazioni giurisprudenziali (di cui si dà conto su Il Sole 24 Ore del Lunedì del 30 novembre), non essendo fondata su un dato normativo. La Cassazione, in particolare, non considera la visione unitaria della determinazione del reddito d’impresa: non è che quest’ultimo è dato soltanto dai ricavi, e la deduzione di un componente negativo di reddito risulta una gentile concessione del legislatore, e quindi assimilabile ad un diritto (nell’ottica dell’articolo 2697 del Codice civile) attribuito al contribuente. La deduzione di un costo rappresenta invece un passaggio necessario ai fini della rappresentazione unitaria del risultato attribuibile alla specifica fonte produttiva (quella dell’attività d’impresa). Sicché la visione (chiaramente) unitaria attribuibile all’attività d’impresa, data dalla rilevanza sia di componenti positivi che di quelli negativi redditualmente, impedisce di configurare la deduzione di un costo come una sorta di diritto slegato, peraltro, dalla fonte produttiva.

Il contribuente, quindi, non deve dare alcuna prova dell’inerenza di un costo, se non dopo che l’Amministrazione ha provato la fondatezza della propria pretesa. Peraltro, andrebbe precisato che l’inerenza, in realtà, non abbisognerebbe di prova. L’onere della prova trova applicazione, infatti, per i fatti (articolo 2697 del Codice civile) quando quelli oggetto della decisione risultano incerti. Per l’inerenza non sono quasi mai i fatti che vengono posti in discussione, cioè se quella spesa, ad esempio, è stata effettivamente sostenuta (non si sta parlando, in questa sede, di utilizzo di fatture false). Per l’inerenza quello che rileva è se la spesa o il costo ha un collegamento o meno con l’attività esercitata. Tutto ciò però non è riconducibile ad un fatto, che può essere oggetto di prova, ma a una valutazione del fatto o dei fatti. In sostanza, si tratta di valutare se il componente economico – la spesa o il costo – ha un collegamento funzionale con l’attività imprenditoriale.

Quindi, per l’inerenza risulta improprio attribuire alle parti degli oneri di prova. Le parti invece hanno, più propriamente, un onere di allegazione dei fatti posti a fondamento delle proprie tesi. L’ufficio dell’amministrazione finanziaria deve quindi allegare, nell’atto di accertamento, i fatti e le ragioni per le quali ritiene che determinati componenti economici non hanno alcun collegamento con l’attività, mentre il contribuente, da parte sua, dovrà allegare i fatti e le ragioni per le quali ritiene che gli stessi componenti hanno un legame con l’attività.


Per saperne di piùRiproduzione riservata ©