Sulla tassazione del trust serve il giudizio delle Sezioni unite
Brigliadoca era un giudice blasonato, infallibile. Tirava i dadi: il responso era equo al punto giusto. Non sbagliava un colpo. Solo in un caso ebbe qualche grattacapo: col passar dell'età, non vedeva più tanto distintamente i punti dei dadi e aveva scambiato un quattro per un cinque.
L'eccessivo carico di lavoro può portare a conseguenze ben più significative. Capita così che, a proposito della tassazione dei trust, si leggano due sentenze di Cassazione, stesso presidente e relatore, che, a distanza di pochi giorni, vanno in contrasto tra loro: sentenze 13141/18 e 13626/18 («Il Sole 24 Ore» del 31 maggio 2018 e dell'11 giugno 2018). Il collegio dà l'impressione di saperlo e, nonostante il Pm avesse chiesto l'accoglimento del ricorso del contribuente (con applicazione dell'imposta di registro fissa), nella sentenza 13626/18, cambia idea con un ragionamento che sta in piedi sui trampoli.
Il principio delineato nella sentenza 13141/18 è che i trust onerosi vanno assoggettati a imposta di registro (in misura fissa in assenza di corrispettivo).
La sentenza 13626/18 assoggetta invece il trust con l'imposta di donazione all'8 per cento. Si trattava di un trust solutorio, che, per definizione, ha come finalità la liquidazione dei beni conferiti in trust e la distribuzione del ricavato ai creditori del disponente; l'eventuale residuo va al disponente.
L'imposta di donazione, secondo la Corte, si spiegherebbe in ragione della volontà del disponente di “arricchire” (non i beneficiari finali del trust, bensì) il trustee, in quanto destinatario del trasferimento dei beni, sia pure ai fini della liquidazione. Qui l'imposta sui vincoli di destinazione assumerebbe rilievo autonomo, nonostante la stessa Corte - avvitandosi in un'altra contraddizione - affermi di condividere l'orientamento giurisprudenziale secondo cui tale (autonoma) imposta semplicemente non esiste.
L'intrigo narrativo rispolvera un'antica distinzione civilistica fra trust statici (autodichiarati) e dinamici (con trasferimento dei beni al trustee). E la manipola a fini tributari: solo i primi produrrebbero un effetto segregativo dei beni nel patrimonio del disponente/trustee.
Si dice che i giuristi devono conoscere a menadito le declinazioni del disincanto. Ma un conto è il disincanto, altro la fantasia giuridica. L'articolo 11 della Convenzione de L'Aja del 1° luglio 1985 parla chiaro: i trust producono un effetto segregativo dei beni rispetto al patrimonio personale del trustee. Tutti i trust, autodichiarati e non.
Affermare che, in caso di trust dinamici, il trustee sia destinatario di un “incremento stabile” del suo patrimonio significa disconoscere il nucleo fondante dei trust: l'esistenza di obbligazioni fiduciarie in capo al trustee, che deve amministrare i beni nell'interesse dei beneficiari (nel caso concreto i creditori del disponente). Il trustee, in quanto tale, non può trarre vantaggio dal fondo in trust. Dunque, non si sa dove andare a pescare una sua capacità contributiva.
Magritte ricordava nei suoi scritti quegli incerti che, non sapendo su quale lato del pane spalmare il burro, lo spalmano su entrambi i lati, correndo il rischio d'impiastrarsi le mani. Non è semplice escludere un parallelismo con quest'atteggiamento operativo giurisprudenziale, per cui, a far la tara, nel caso di trust liquidatori, si avrebbe una duplice nozione di “beneficiario”: il beneficiario diretto del trasferimento dei beni dal disponente, cioè il trustee; i beneficiari del «successivo ed eventuale trasferimento della proprietà dei beni vincolati». Ma, ci avrebbe redarguito Magritte, questa non è una pipa. E si apre la solita domanda: esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? I creditori non hanno alcun diritto di ricevere i beni in trust, sono solo destinatari del ricavato dalla loro liquidazione.
Il vero è che la tassazione dei trust non è né un romanzo di un novello Rabelais, né un quadro di Magritte; ma neanche può tollerare che qualcuno resti con la lanterna accesa di chiaro mattino. Chiunque può cambiare idea, anche il giorno dopo. Ma l'uniforme interpretazione della legge è ancora un principio scolpito dall'ordinamento giudiziario italiano. E, dopo gli ondivaghi orientamenti della Corte (3735/15 da un lato, 21614/16 in senso opposto), è quanto mai opportuno un tempestivo intervento nomofilattico delle Sezioni unite.