Sulle Cfc norme italiane ancora lontane dal regime Ue
La Commissione incompatibilità norme Ue della Aidc di Milano ha inviato alla Commissione europea un’integrazione alla denuncia n. 12/2016 sul regime fiscale delle Cfc, sulla quale quest’ultima non si è ancora pronunciata. La finalità è segnalare come l’incompatibilità con i principi unionali permanga anche dopo la pubblicazione dello schema di decreto legislativo di attuazione della direttiva 2016/1164/UE del 12 luglio 2016 - Atad 1, discusso in sede di esame preliminare dal Consiglio dei ministri l’8 agosto 2018.
L’integrazione, in primo luogo, ribadisce che restano attuali i punti di attenzione sull’articolo 167 del Tuir già sollevati nella originaria denuncia. In particolare:
inversione dell’onere della prova a carico del contribuente controllante;
impossibilità di presentare ricorso in caso di esito negativo dell’interpello.
Inoltre, la commissione Aidc segnala ulteriori profili di criticità del nuovo testo proposto dell’articolo 167 del Tuir, sia in relazione a una delle condizioni affinché la controllata sia assoggettata al regime Cfc, sia in merito alla determinazione del reddito da includere nella base imponibile.
Infatti, l’articolo 167, comma 4 del Tuir come riformulato dallo schema di decreto legislativo, prevede quale seconda condizione concorrente (la prima rimane la tassazione ad un tax rate effettivo inferiore del 50% rispetto a quello a cui la controllata estera sarebbe soggetta qualora residente in Italia) che oltre un terzo dei proventi realizzati rientri in una o più delle categorie elencate, cioè da passive income, attività finanziarie, operazioni intragruppo a valore economico aggiunto scarso o nullo.
Secondo la commissione Aidc si tratterebbe di un’attuazione non conforme, poiché in realtà la disposizione domestica non fa riferimento al reddito (income) come indicato nella direttiva 2016/1164/UE, ma ai proventi (cioè ai ricavi lordi).
La differenza non è senza conseguenze.
Il reddito deriva dalla differenza tra ricavi e costi, mentre i ricavi/proventi (revenues) sono l’utilità economica che un’impresa crea attraverso l’attuazione del processo economico imperniato sulla vendita di un quantitativo di beni e servizi.
La direttiva 2016/1164 (articolo 7, par. 2, lett. a) parla espressamente di «redditi non distribuiti dell’entità o i redditi della stabile organizzazione» e consente allo Stato membro (par. 3 del medesimo articolo 7) «di non trattare un’entità o una stabile organizzazione come una società controllata estera se non oltre un terzo dei redditi ottenuti dall’entità o dalla stabile organizzazione rientra nelle categorie di cui al paragrafo 2, lettera a)».
In sostanza, interpretando correttamente la direttiva, quando il reddito (prima delle imposte) deriva per oltre un terzo da passive income o dalle altre operazioni ivi indicate, la controllata estera, al verificarsi di tutte le condizioni, è soggetta alla Cfc rule: diversamente no.
La norma italiana di attuazione non appare, quindi, conforme per le seguenti ragioni. In primo luogo la direttiva limita, al paragrafo 2, lettera a) dell’articolo 7, l’inclusione nella base imponibile dei soli redditi non distribuiti derivanti dalle operazioni specificatamente individuate e non di tutti i redditi. L’inclusione della totalità dei redditi è, infatti, prevista solo ove lo Stato opti per la fattispecie indicata alla lettera b) dello stesso articolo articolo 7, cioè per i redditi non distribuiti «derivanti da costruzioni non genuine che sono state poste in essere essenzialmente allo scopo di ottenere un vantaggio fiscale».
Inoltre, il calcolo ai fini del test Cfc è dato da un confronto tra l’ammontare dei redditi ritratti da passive income e l’ammontare di tutti gli altri redditi della controllata non residente: la Direttiva non si riferisce ai proventi/ricavi. Solo quando i redditi dalle operazioni individuate sono superiori di oltre un terzo rispetto ai redditi totali, si verifica la condizione.
Si ipotizzi una controllata estera che a fine anno abbia conseguito revenue per € 1.000, di cui € 400 provenienti da operazioni indicate dal punto i) al punto vi) della lettera a) dell’articolo 7. Se il reddito (income) ante imposte di € 200 è costituito per il 75% da redditi “diversi” dai passive income, la condizione di cui all’articolo 7, paragrafo 2, lett. a) non si avvera. Naturalmente, la Cfc rule potrà tornare applicabile qualora, viceversa, il reddito di € 200 ante imposte sia costituito per oltre un terzo da passive income (cioè, ad esempio, € 68 su € 200), ma solo questa quota del reddito (€ 68) dovrà essere inclusa nell’imponibile (beninteso, se la legal entity non svolga un’attività economica effettiva).
L’applicazione della disciplina sarebbe operativamente più complessa, ma conforme al dettato della Direttiva.
Il sistema “misto” che il Governo vorrebbe adottare è così motivato nella relazione illustrativa: «Al fine di contemperare le esigenze di semplificazione delle modalità di applicazione della disciplina CFC,(...) si è deciso di adottare un approccio che prevede l’imputazione al soggetto residente di tutti i redditi del soggetto controllato non residente localizzato in un Paese a fiscalità privilegiata, qualora quest’ultimo realizzi proventi per oltre un terzo derivanti da passive income».
La semplificazione del Governo italiano è in realtà improntata, più che a semplificare, ad assicurare un maggior reddito alle casse dello Stato. Prima della direttiva 2016/1164 ogni Stato poteva adottare liberamente proprie regole di contrasto alle Cfc. Oggi, invece, esiste un testo comunitario codificato e armonizzato e non sono possibili attuazioni tecniche difformi nemmeno in forza dell’articolo 3 della 2016/1164/UE.
Se lo Stato italiano intende optare per l’inclusione complessiva dei redditi della controllata non residente, allora dovrà adottare la disposizione di cui alla lettera b), par. 2, dell’articolo 7, cioè in presenza di costruzioni artificiose.