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Tax credit sui locali commerciali, il nodo della categoria catastale

Gli uffici in A/2, se locati come studio, rischiano di essere esclusi, ma deve prevalere il criterio dell’uso

di Cristiano Dell'Oste

Il disallineamento tra l’uso effettivo di un immobile e la sua classificazione catastale può mettere a rischio il credito d’imposta sulle locazioni? È la domanda che si stanno ponendo diversi inquilini rispetto al credito d’imposta per le attività commerciali introdotto dal decreto Rilancio (articolo 28, Dl 34/2020).

Il caso riguarda soprattutto gli uffici. Alcuni di essi, infatti, non sono iscritti in catasto come tali (cioè in categoria A/10), ma come abitazioni. Il fenomeno non è uniforme su tutto il territorio nazionale, ma ha una sua rilevanza. Lo si deduce anche dai dati contenuti nel volume «Gli immobili in Italia» edito dal dipartimento delle Finanze e dalle Entrate. Tra gli immobili di proprietà di persone fisiche, le case locate sono quasi 3,4 milioni, mentre 810mila sono i negozi (categoria C/1), 201mila i fabbricati produttivi (gruppo D) e 171mila gli uffici (categoria A/10). Che qualche ufficio locato come studio professionale - con contratto “6+6” - sia oggi accatastato come appartamento è sicuro.

Secondo il decreto Rilancio, il credito d’imposta del 60% per i mesi di marzo, aprile e maggio - oltre agli altri requisiti - deve essere calcolato sul canone mensile di locazione, di leasingo o di concessione di «immobili a uso non abitativo destinato allo svolgimento dell’attività commerciale, artigianale, agricola, di interesse turistico o all’esercizio abituale e professionale dell’attività di lavoro autonomo». Diventa decisivo, allora, capire cosa si intende per “uso non abitativo”.

Se prevale la nozione catastale (come ai fini Iva) un’unità immobiliare accatastata come A/3, ad esempio, dovrebbe essere esclusa dal credito d’imposta, anche se locata con un contratto “6+6” per una delle attività previste dal decreto. Pensiamo al classico studio dentistico o alla società di informatica basati in un appartamento. Si può ricordare anche quanto fu precisato dalle Entrate con la circolare 26/E/2011 per la cedolare secca, escludendo la tassa piatta nel caso di locazioni abitative di immobili accatastati in categorie non abitative (ad esempio, un loft locato come abitazione ma rimasto in categoria C/3).

Ci sono valide ragioni, però, per sostenere che possa prevalere una nozione “reddituale” (articolo 43, del Tuir), secondo cui l’agevolazione segue l’utilizzo effettivo ed esclusivo dell’immobile in una delle attività indicate dalla norma, senza badare alla categoria catastale. Categoria che tra l’altro non viene menzionata dal decreto Rilancio, e proprio questo può essere l’argomento decisivo: non limitare in via amministrativa ciò che la legge non esclude. D’altra parte, tutta la ratio del decreto Rilancio sembra andare in questa direzione, a partire dal fatto che la nuova norma è stata introdotta proprio per ampliare e superare i tanti vincoli del tax credit disciplinato dal “cura Italia”, che invece era limitato alle unità iscritte in categoria C/1, con mille ingiustizie applicative (articolo 65 del Dl 18/2020).

Finché non arriveranno conferme ufficiali, però, sul punto occorre prudenza. Il credito non è ancora spendibile, in attesa del provvedimento attuativo. Nel frattempo, inquilini e locatori dovrebbero ragionare - in questi casi - “come se” l’agevolazione ci fosse, regolando in tal senso i propri rapporti, salvo riscontrarne l’effettiva applicabilità (si spera fra non troppo tempo).