Controlli e liti

Una quadratura da recuperare per la Cassazione

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di Salvatore Sanzo

Alla base dei principi generali del nostro ordinamento giuridico processuale sta certamente la funzione “nomofilattica” assegnata alla Corte di cassazione: un termine che condensa la complessa funzione che il giudice di legittimità è chiamato a svolgere, cioè garantire «l’osservanza della legge, la sua interpretazione uniforme e l’unità del diritto statale».

L’ordinamento assume come valore, dunque, l’interpretazione “uniforme” del diritto e, conseguentemente, come disvalore l’interpretazione “difforme”, almeno da parte della Suprema Corte.

Sempre più e spesso si assiste però ad orientamenti oscillanti, anche su materie molto rilevanti. Una recente sentenza offre l’occasione per una riflessione in merito.

L’articolo 2495 del Codice civile dispone che, dopo la cancellazione della società dal registro delle imprese, per i debiti sociali rimasti insoddisfatti possono essere chiamati a rispondere anche i soci, ma solo nei limiti degli importi ad essi corrisposti con il bilancio finale di liquidazione.

Le successive novità di sistema introdotte con la riforma del diritto societario, in combinazione con quella organica del diritto fallimentare del 2006, fanno sì che oggi si determini una sorta di efficacia (impropriamente) “costitutiva” della cancellazione dal registro delle imprese, con la conseguenza che, dopo un anno dalla cancellazione, non è più possibile per i creditori insoddisfatti provocare la dichiarazione di fallimento della società cancellata.

Negli ultimi anni c’è stato un abuso di questa previsione, che ha spesso provocato l’estinzione di società cariche di debiti (soprattutto tributari) confidando poi nella lentezza della macchina burocratica di recupero dei crediti, con la conseguente impossibilità di soddisfacimento degli stessi: da un lato, perché la società non è più soggetta a dichiarazione di fallimento per il decorso dell’anno, dall’altro perché i soci - non avendo ricevuto nulla in sede di bilancio finale di liquidazione - non possono essere chiamati a rispondere dei debiti sociali.

Proprio per affrontare questo problema il legislatore ha avvertito l’esigenza di introdurre l’articolo 28, comma 4 del Dlgs 175/2014, con cui si è previsto che, riguardo alla riscossione di tributi e contributi, l’estinzione della società ha effetto solo dopo cinque anni dalla cancellazione dal registro delle imprese.

In tale quadro, interviene appunto la Cassazione (sezione tributaria, 18 aprile 2018, n. 9672), la quale, con un’articolata argomentazione processuale fondata sulla differenza tra il concetto di legittimazione passiva e quello di interesse ad agire, afferma che, anche se i soci non hanno percepito alcunché in sede di bilancio finale di liquidazione, l’agenzia delle entrate può evocarli in giudizio per farne affermare la responsabilità “sussidiaria” rispetto alla società ormai estinta. Altro è, invece, l’eventuale difetto di interesse a conseguire una siffatta pronuncia, interesse che, investendo il momento “successivo” ed eventuale dell’accertamento dell’avvenuta percezione di somme in forza del bilancio finale di liquidazione, rappresenterebbe un fatto di rilevanza posteriore. Con la conseguenza che il giudice può comunque emettere la sentenza che afferma la responsabilità del socio, sentenza che poi potrebbe non trovare esecuzione laddove risultasse che effettivamente il socio non abbia percepito alcunché.

L’affermazione, pur costituendo una lieve forzatura del dato normativo, non è nuova e costituisce un principio seguito da diversi giudici di merito; esso peraltro è stato ritenuto condivisibile anche da autorevole dottrina, che lo considera un corretto contrappeso rispetto a condotte abusive in danno dei creditori che l’attuale normativa consentirebbe di attuare con una certa facilità.

Il principio è di grande rilevanza concreta e può provocare una qualche riflessione sulla funzione nomofilattica. Infatti la sentenza di cui si parla si mostra consapevole di un significativo contrasto all’interno della stessa Corte di cassazione sulla validità del principio affermato: ed infatti richiama, a supporto della propria decisone, la recente Cassazione a Sezioni unite, in data 12 marzo 2013, n. 6070, che per l’appunto aveva sottolineato la sopra accennata differenza tra legittimazione passiva ed interesse ad agire. Nel contempo, però, essa stessa è costretta a menzionare innumerevoli pronunce, molte anche successive all’intervento delle Sezioni unite, della medesima sezione tributaria, che, invece, andando in direzione perfettamente contrapposta, hanno affermato il principio che non tutti i soci siano legittimati sul piano passivo ad essere chiamati a rispondere dei debiti insoddisfatti, ma solo quelli che il creditori comprovi sin dall’origine che abbiano percepito alcunché in sede di liquidazione.

La Suprema corte, in sostanza, non si mostra d’accordo con se stessa con riguardo ad un tema di grande attualità concreta: il che comporta il proliferare del contenzioso poiché, non essendo prevedibile quale sarà la decisione finale, a tutti i contendenti conviene correre il rischio di portare avanti il processo. Un’altra conseguenza è poi il disorientamento degli interpreti e la sostanziale negazione della funzione nomofilattica.

Disorientamento che, non solo nell’operatore giuridico ma in fondo anche nel normale cittadino, diventa vero e proprio sconforto. Troppi problemi, infatti, discendono dall’assenza di regole certe e, soprattutto, dall’assenza di certezze sulla loro applicazione: situazione che disincentiva gli investitori “sani” dall’assunzione di iniziative in Italia. L’auspicio è dunque che la Suprema Corte riprenda e mantenga saldo il proprio ruolo di indirizzo e si renda protagonista nella affermazione della certezza del diritto.

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