Voluntary possibile anche a chi è consapevole di indagini in corso
Il sequestro delle fatture false nei confronti del fornitore non costituiva causa ostativa per l’adesione alla voluntary disclosure del cliente, nonostante egli conoscesse la misura cautelare. Ad affermarlo è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza 10801 depositata ieri.
Il Gip disponeva il sequestro preventivo finalizzato alla confisca nei confronti dei rappresentanti legali di alcune società per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti (articolo 2 del decreto legislativo 74/2000).
Il Tribunale del riesame annullava l’ordinanza disponendo il dissequestro dei beni, ritenendo il profitto del reato integralmente pagato, atteso che entrambi gli indagati avevano presentato l’istanza di collaborazione volontaria (voluntary disclosure).
Il Pm ricorreva in Cassazione lamentando, in estrema sintesi, un’errata interpretazione della norma. Secondo l’accusa, il legale rappresentante di una delle società coinvolte era a conoscenza dell’attività ispettiva in corso nei confronti dell’emittente le fatture. Infatti, precedentemente in capo alla società ritenuta responsabile dell’emissione dei falsi documenti, la procura aveva disposto il sequestro probatorio dei documenti stessi.
Successivamente, gli imprenditori che avevano registrato le fatture in acquisto (non coinvolti direttamente nel sequestro probatorio del loro fornitore) aderivano alla voluntary.
Per il Pm era quindi sussistente una causa ostativa per l’adesione alla voluntary che rendeva priva di effetti la regolarizzazione. In ogni caso, la voluntary stessa non incideva sulla operatività del sequestro poiché le somme oggetto di rimpatrio differivano dall’evasione contestata nel procedimento penale.
La Suprema corte non ha condiviso le tesi della Procura confermando così la decisione del Tribunale del riesame. Secondo i giudici di legittimità, innanzitutto, la collaborazione volontaria non poteva essere presentata dal contribuente che aveva “formale conoscenza” di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali per violazione di norme tributarie.
Il giudice territoriale, però, aveva accertato che il decreto di sequestro delle fatture era stato emesso nei confronti di un soggetto terzo rispetto agli indagati, ossia in capo al legale rappresentante della società emittente i documenti e peraltro per reati differenti. Da ciò conseguiva che non si era verificata la causa ostativa preclusiva della collaborazione volontaria.
Con riguardo, invece, alla correlazione tra voluntary disclosure e sequestro finalizzato alla confisca, la Cassazione ha ricordato che la norma escludeva anche la punibilità per il delitto di dichiarazione fraudolenta (articolo 2 del Dlgs 74/2000). Pertanto, una volta perfezionata la procedura e pagate le relative imposte, la causa di non punibilità fa venir meno la natura di profitto del reato, diventando illegittima la protrazione di un sequestro finalizzato alla confisca.
I giudici di legittimità hanno poi ritenuto irrilevante la differenza tra i valori regolarizzati e le somme oggetto di sequestro, in quanto il legislatore, prevedendo la non punibilità anche del reato di dichiarazione fraudolenta, ha inteso di fatto far coincidere gli importi rimpatriati con quelli derivanti dall’utilizzo dei documenti falsi.
Cassazione, III sezione penale, sentenza 10801 del 12 marzo 2019