I temi di NT+Modulo 24

Accertamento analitico-induttivo, i giudici promuovono anche lo shampometro

Via libera della sentenza 2684/7/2020 della Ctr Lazio alla rettifica per parrucchieri e saloni di bellezza

di Alessandro Borgoglio

Il quantitativo di shampoo acquistato da un parrucchiere e utilizzato nella sua attività è un elemento presuntivo idoneo a consentire al Fisco una ricostruzione induttiva dei ricavi, appunto, sulla base del consumo di tale indispensabile prodotto per l’esercizio dell’attività. Sono queste le conclusioni della sentenza 2684/7/2020, con cui la Commissione tributaria regionale del Lazio ha dato il via libera allo “shampometro” per l’accertamento nei confronti di parrucchieri e saloni di bellezza (si veda anche il precedente articolo a riguardo).

La pronuncia riguarda, ancora una volta, un caso di accertamento c.d. analitico-induttivo, che prende le mosse dall’analisi della contabilità aziendale, per applicare poi delle presunzioni, al fine di determinare indirettamente i ricavi accertabili.
È una decisione che giunge in un momento storico in cui, da un lato, è in corso un ampio dibattito sull’evoluzione della tenuta delle scritture contabili anche mediante sistemi di intelligenza artificiale e, dall’altro lato, si assiste a una modifica temporanea - a causa del Covid-19 - delle dinamiche del processo tributario che tendono a marginalizzare il contraddittorio orale, ovvero la fase in cui eventuali storture nell’utilizzo delle presunzioni fiscali potrebbero essere meglio evidenziate e contestualizzate, anche attraverso un patrimonio informativo orale di cui i giudici potrebbero essere privati in assenza di dibattimento.

Tornando alla pronuncia, è utile ripercorrere il quadro normativo di riferimento, partendo dall’articolo 39, comma 1, lett. d), ultimo periodo, del Dpr 600/1973, per cui l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti.
Analogamente, ai fini Iva, ai sensi dell’art. 54, comma 2, ultimo periodo, del Dpr 633/1972, le omissioni e le false o inesatte indicazioni nelle dichiarazioni annuali possono essere indirettamente desunte anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti.
Inoltre, l’art. 62-sexies del Dl 331/1993 stabilisce, poi, che gli accertamenti di cui alle suddette disposizioni possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore.

Quelle sopra riportate sono le coordinate normative dell’accertamento analitico-induttivo, anche se sarebbe meglio chiamarlo accertamento analitico con posta presuntiva: il punto di partenza, infatti, è sempre la contabilità aziendale, che viene esaminata dai verificatori fiscali al fine di individuare in genere una materia prima o un elemento indispensabile per l’esercizio dell’attività controllata, al fine di applicarvi una presunzione sulla quantità necessaria per rendere una singola prestazione, che poi valorizzata a un certo prezzo medio - anche qui applicando una presunzione - consente di pervenire ai ricavi presuntivamente conseguiti dall’attività stessa.
Nella pratica tale metodologia si declina nelle più svariate e a volte fantasiose ricostruzioni indirette, che sono state identificate giornalisticamente con nomi che richiamano in qualche misura il redditometro, ma che in realtà nulla hanno a che spartire con questo (defunto?) strumento accertativo, se non il tentativo di misurare, in qualche modo, una grandezza fiscalmente rilevante: i ricavi o il reddito.

Con il placet della Cassazione, il Fisco si è quindi sempre più affidato a queste ricostruzioni presuntive, pure in presenza di contabilità formalmente tenuta e, tuttavia, contestabile in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che facciano seriamente dubitare della completezza e fedeltà della contabilità esaminata, sicché essa possa essere considerata, nel suo complesso, inattendibile (ex pluris, Cass., 10212/2018 e 15344/2019).
Un tipico esempio di tali ricostruzioni è il c.d. tovagliometro: si tratta di una metodologia utilizzata per i ristoranti e le pizzerie, fondata sul consumo di tovaglioli, e la presunzione su cui si basa l’accertamento è quella per cui ad ogni tovagliolo corrisponde un pasto, dedotto naturalmente un congruo numero di scarto; dal numero complessivo di tovaglioli consumati in un anno è dunque possibile ricostruire il volume d’affari del contribuente, attraverso la valorizzazione delle quantità con un prezzo di menù medio (ex pluris, Cass. 24570/2019, 8822/2019, 16981/2018).
È stato ribattezzato, invece, con il nome di “bottigliometro”, l’accertamento fondato sull’utilizzo delle bottiglie di acqua acquistate da un ristorante come elemento chiave per la ricostruzione presuntiva del volume d’affari: i Supremi giudici hanno ritenuto che la ricostruzione indiretta del volume d’affari di un ristorante fondata sul consumo di bottiglie di acqua minerale è legittima, atteso che tale elemento chiave - l’acqua minerale - costituisce un “ingrediente” essenziale di ogni pasto, così come un tovagliolo accompagna la somministrazione di ogni consumazione. Sulla base di ciò, è lecito presumere che ad ogni bottiglia (alla stregua di ogni tovagliolo) corrisponda un pasto, sicché sia possibile, valorizzandone il numero complessivo, ricostruire il volume d’affari dell’esercizio commerciale (Cass., 25129/2016 e 17408/2010).
Più recentemente, i Giudici del Palazzaccio hanno convalidato un accertamento analitico-induttivo, a carico di una ditta di confezionamento di biancheria intima e corsetteria, fondato sulle etichette segnataglia nonché sui bottoni utilizzati per la realizzazione delle camicie, ponendo in essere una sorta di “bottonometro” (Cass., 18982/2019).
Inoltre, secondo i Giudici di piazza Cavour, partendo da un dato certo, come la quantità necessaria per la preparazione di una tazzina di caffè, scorporato dello sfrido e della quantità di polvere utilizzata per i cappuccini o venduta sfusa, è legittima la ricostruzione dei ricavi operata dall’Ufficio attraverso la determinazione del numero di tazzine di caffè complessivamente servite nel bar e valorizzate al prezzo al pubblico: si tratta del c.d. caffettometro o tazzinometro (cfr. Cass., 25482/2013 e 10207/2018; contra, Cass., 10204/2016, secondo cui il quantitativo di caffè necessario per servire la tipica tazzina da bar, 7-8 grammi, non costituirebbe un fatto notorio utilizzabile dal Fisco per la ricostruzione induttiva dei ricavi).
Altre metodologie magari meno note e diffuse hanno comunque posto a base delle ricostruzioni indirette del Fisco altri materiali o beni indispensabili per l’esercizio dell’attività e hanno pressoché sempre trovato una conferma da parte degli Ermellini: così è stato con la farina utilizzata per la ricostruzione dei ricavi di un panificio (Cass., 21860/2018), oppure con i cartoni contenitori della pizza da asporto per ricostruire i ricavi di una pizzeria (Cass., 7695/2020), e perfino con i necrologi e le imbottiture dei cofani funebri per l’accertamento a carico di pompe funebri (Cass., 30778/2018 e 12682/2019).

Non c’è in sostanza un settore commerciale dove il meccanismo della ricostruzione indiretta dei ricavi su base presuntiva non si possa applicare. Una condizione, importante, affinché si possa procedere in tal senso, però, è l’individuazione di criteri di adattamento alla situazione concreta: ad esempio, nel tovagliometro non si possono non considerare i tovaglioli di carta sprecati o quelli di stoffa che sono utilizzati in cucina o dai camerieri, così come nel caffettometro non si può non considerare una adeguata percentuale di caffè dispersa nel corso delle operazioni di pulitura e regolazione della macchina o consumati dai dipendenti e dal titolare, e ciò è stato puntualizzato in tutte le pronunce sopra citate; insomma, tutte queste metodologie, proprio perché si basano su presunzioni semplici, devono necessariamente essere adattate al contesto specifico, e tanto più il contribuente e l’Ufficio riusciranno a condividere il processo di formazione della pretesa impositiva, ad esempio fornendo elementi oggettivi, anche presuntivi, nel corso dei contraddittori, tanto più l’accertamento tenderà ad una individuazione attendibile dei ricavi effettivamente conseguiti e, quindi, tassabili.

La pronuncia in esame - Ctr Lazio 2684/2020 - si innesta su questo filone giurisprudenziale, avallando una ennesima metodologia accertativa basata questa volta sull’utilizzo dello shampoo da parte di un’impresa avente ad oggetto l’attività di parrucchiere: in realtà si tratta di una Srl con ricavi per quasi 200mila euro, quindi di un grosso salone di bellezza, che però aveva dichiarato un reddito di soli 16mila euro circa.
L’Ufficio aveva conteggiato quanto shampoo aveva acquistato la società e, quindi, aveva determinato il numero di prestazioni che i parrucchieri del salone avrebbero potuto rendere sulla base del quantitativo medio utilizzato per ogni prestazione; valorizzando poi ad un prezzo medio il numero delle prestazioni, l’Ufficio era pervenuto ai ricavi accertabili.
La società aveva cercato di opporsi a tale metodologia accertativa, ma i giudici romani hanno confermato la correttezza dell’operato del Fisco, considerando tale procedimento accertativo alla stregua di quello previsto per il tovagliometro più volte convalidato dalla Cassazione.

Non sarà certamente stato indifferente a tale conclusione il fatto che la Srl avesse dichiarato un reddito molto basso a fronte di ricavi molto elevati, che sussistesse una consistente liquidità di cassa e che i soci avessero effettuato dei finanziamenti in contanti e avessero ottenuto delle restituzioni sempre in contanti.
In effetti, molto spesso, con questa tipologia di accertamento, il Fisco tende a supportare la ricostruzione presuntiva fornendo altri elementi indiziari convergenti, come appunto l’antieconomicità, chiamata in causa un po’ velatamente nel caso di specie, oltre alle anomalie riguardanti il conto cassa e le movimentazioni di contanti fra società e soci, elementi che singolarmente possono non significare granché, ma che, complessivamente considerati, unitamente alla ricostruzione indiretta, hanno evidentemente fornito un quadro probatorio sufficiente per il collegio giudicante per ritenere integrata una presunzione qualificata di maggiori ricavi accertabili.

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