Controlli e liti

La stretta della rete globale: in arrivo dati da 88 Paesi

di Alessandro Galimberti e Valerio Vallefuoco

Finita per sempre - almeno sulla carta - l’era dei paradisi fiscali dietro l’angolo, la delocalizzazione del “nero” in fuga dal fisco può contare, ancora oggi, su una quarantina di Paesi del tutto fuori dallo scambio automatico di informazioni.

Si tratta, nella maggior parte dei casi, di amministrazioni che non sono nemmeno lontanamente paragonabili ai vecchi, affidabili lidi appena fuori dai confini patrii: in gran parte sono paesi centrafricani (ma anche Tunisia e Marocco, dirimpettai “non collaborativi”), centramericani (Santo Domingo, Haiti, Jamaica), sudamericani (Ecuador, Paraguay) e dell’Estremo oriente (Cambogia, Mongolia, Filippine).

Resta però anche qualche significativo buco dentro l’Europa continentale, dal blocco della disgregata Jugoslavia ( con l’eccezione di Croazia e Slovenia, totalmente “emerse”) fino all’Ucraina e alla Georgia. In sintesi, chi vuole sfuggire al fisco, oggi molto più di ieri deve assumersi il “rischio paese”, cioè l’eventualità di perdere qualcosa o tutto per strada.

Fatte queste eccezioni - a cui bisogna aggiungere anche gli Stati Uniti d’America, che non hanno mai ratificato gli accordi Ocse dopo l’avvento di Trump - il resto del mondo fiscale è ormai solidamente “in rete”, con 102 paesi che hanno già aderito agli standard di comunicazione e di scambio tra amministrazioni fiscali, meglio noti come accordi multilaterali sul Common Reporting Standard. E non si tratta di semplici impegni: 49 Paesi (tra cui l’Italia) hanno trasmesso i primi dati “worldwide” nel settembre del 2017; altri 53 lo faranno entro il prossimo settembre. Secondo il rapporto Ocse, lo scambio di informazioni automatico avrebbe già portato quasi 100 milioni di maggiori ricavi e un aumento delle attività estere dichiarate dai contribuenti.

Ad oggi - si veda la cartina a lato - sono 88 le amministrazioni fiscali estere che inviano automaticamente i dati di contribuenti italiani all’agenzia delle Entrate, secondo diversi modelli ma con un unico scopo: radiografare conti, attività, investimenti detenuti fuori dai confini. Si va dallo scambio automatico “Crs”, alla circolazione intraUe (la direttiva 2014/107/UE che regola il dialogo obbligatorio tra i 27, Gran Bretagna compresa: entrata in vigore il 1° gennaio 2016, ha posto fine al segreto bancario a fini fiscali in tutta l’Unione ), allo scambio fondato su accordi con l’Ue (gli ex paradisi fiscali europei) e infine ai due accordi bilaterali ratificati con le piazze finanziarie asiatiche (Singapore e Hong Kong).

A proposito di Ocse, l’organizzazione con sede a Parigi sta rivedendo i requisiti di individuazione degli Stati non cooperativi che entreranno nella black list in uscita entro dicembre. Il ripensamento dell’Ocse si è ispirato ai lavori del Gruppo Codice di Condotta in sede Ue, che aveva messo a punto una black list di 7 giurisdizioni non propriamente collaborative (American Samoa, Guam, Namibia, Palau, Samoa, Trinidad e Tobago e le Isole Vergini Americane), un po’ più articolata di quella parigina (dove c’è solo Trinidad e Tobago). L’Ue ha inoltre affiancato alla lista nera una lista grigia di 65 Paesi messi sotto stretta osservazione.

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