Contabilità

Dividendi, l’imposta al 26% penalizza gli enti finanziari

di Giorgio Gavelli e Marco Piazza

L’imposta secca del 26% sui dividendi percepiti dalle persone fisiche al di fuori dall’esercizio d’impresa, introdotta dalla legge di Bilancio 2018 con una decorrenza del tutto peculiare, è particolarmente penalizzante per quelli distribuiti dagli enti creditizi e finanziari, che oltre all’Ires del 24% scontano un’addizionale del 3,5%.

L’addizionale colpisce specialmente le banche, gli intermediari finanziari autorizzati dalla Banca d’Italia all’esercizio dell’attività di concessione di finanziamento nei confronti del pubblico e iscritti nell’albo di cui all’articolo 106 del Testo unico bancario, gli Istituti di moneta elettronica (Imel) e gli istituti di pagamento.

Sono espressamente esonerate dall’addizionale le società di gestione dei fondi comuni d’investimento (articolo 1, comma 49 lettera a legge n. 232/2016) e, sempre dal 2017, le società di intermediazione mobiliare (articolo 1, comma 84 legge n. 205/2017). Per motivi logico sistematici si devono considerare esonerate le fiduciarie, anche quando soggette alla vigilanza di Banca d’Italia.

Se si sommano le imposte pagate dall’intermediario finanziario, ossia Irap (5,57% sul valore della produzione), Ires (24%) e addizionale (3,5%) sul reddito d’impresa al netto della deduzione forfettaria del 10% dell’Irap, emerge che l’intermediario è in grado di distribuire in media il 67% del reddito che ha prodotto. Applicando l’imposta secca del 26% su tale ammontare, risulta che le imposte complessivamente pagate dalla società e dal socio salgono ad oltre il 50% del reddito prodotto (poco meno del 45% a non voler conteggiare l’Irap).

Ancora maggiore, seppure di poco, è l’effetto se il socio è un imprenditore individuale o una società di persone. Per questi contribuenti, il dividendo concorre «a regime» a formare l’imponibile nella misura del 58,14 per cento. Ipotizzando che il contribuente sconti l’Irpef al 43% e le addizionali al 2,5%, le imposte complessivamente dovute dalla società e dal socio ammontano a quasi il 51% (oltre il 45% a non voler conteggiare l’Irap).

Il trattamento meno penalizzante (per così dire) è riservato agli enti non commerciali (come trust e fondazioni) per i quali il dividendo concorre integralmente alla formazione del reddito imponibile soggetto all’Ires del 24%. Per questi enti la tassazione complessiva del reddito prodotto dall’ente finanziario è del 49% circa (43,5% senza considerare l’Irap); tassazione che viene ulteriormente attenuata per le fondazioni che beneficano della riduzione a metà dell’Ires ai sensi dell’articolo 6 del Dpr 601/1973 .

Non è chiaro se la supertassazione dei soci di enti finanziari – che deriva dal fatto che il maggior onere ai fini Irpef si somma ad un prelievo Ires che, per via dell’addizionale, è rimasto invariato – derivi da una semplice dimenticanza del legislatore o sia voluto.

Dalla lettura degli atti parlamentari, emerge in realtà che l’addizionale Ires è andata di fatto a compensare il fatto che alle banche e alle finanziarie diverse dalle Sim e dalla società di gestione di fondi comuni è stata riconosciuta l’integrale deducibilità degli interessi passivi, mentre per gli altri enti finanziari gli interessi passivi restano deducibili solo al 96%. In quest’ottica si giungerebbe alla conclusione che le banche godono comunque di una minor tassazione anche se non per effetto della riduzione dell’aliquota, ma dell’abbassamento dell’imponibile. Il che potrebbe giustificare il fatto che gli utili delle banche siano tassati con le stesse regole di quelli distribuiti dalle altre società.

Resta il fatto che l’investimento in un ente il cui reddito, quando giunge al socio, è più che dimezzato, non è molto appetibile. E questo, per strutture soggette a frequenti ricapitalizzazioni imposte dalle leggi del mercato in cui operano, non è certo un buon biglietto da visita.

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