Controlli e liti

Brand name, sì alla royalty chiesta dalla casa madre alla controllata

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di Massimo Romeo

«Non è vietato che la casa madre possa pretendere una royalty per l'utilizzo del brand anche se il brand name faccia già parte della denominazione della società controllata; ciò in virtù dello stretto rapporto di causa-effetto che sussiste fra le royalties e i ricavi relativi alle vendite effettuate nel territorio». Questo il principio emergente dalla sentenza della Ctr Milano n. 4814/2018 del 08 novembre ( presidente Sacchi - relatore Chiametti).

La vicenda

La questione controversa riguardava l’impugnazione da parte di una Srl di un avviso di accertamento recante una maggiore pretesa ai fini Irap emesso per l’indebita deduzione di costi per servizi non documentati nonché per royalties considerate non inerenti.
La consociata estera aveva sede in Belgio , svolgeva il ruolo di Head Office per il gruppo ed in virtù di un ridimensionamento dell’aspetto organizzativo a favore di una gestione centralizzata provvedeva ad erogare sempre maggiori servizi i cui costi erano riaddebitati alle singole società nazionali, fra cui la ricorrente.

Tra le varie voci ed i diversi importi, l’Ufficio non aveva ritenuto validamente giustificato il riaddebito dei costi dei servizi non commerciali in quanto qualificati come normali «spese di regia», in carenza della prova di una effettiva utilità, obiettivamente determinabile ed adeguatamente documentata, congrua rispetto al vantaggio conseguito.

Sul punto, sia la Ctp che la Ctr, accoglievano la tesi della ricorrente , in ossequio al principio di diritto enunciato recentemente dalla Corte di cassazione secondo la quale l’inerenza s’impernia sulla relazione tra la spesa e l’impresa, per cui il costo risulta deducibile non tanto se è specificatamente connesso ad una determinata componente di reddito bensì in virtù di una sua correlazione con un’attività potenzialmente idonea a produrre utili; i giudici tributari pertanto consideravano inerenti i costi dando particolare rilievo alla certificazione rilasciata alla ricorrente da una società di revisione che attestava l’effettività dei costi.

Sul secondo aspetto, il versamento della royalty, i giudici provinciali consideravano irrilevante che la stessa fosse stata richiesta successivamente, e non fin dall’origine, con un apposito contratto in base al quale veniva concesso alla società italiana l’utilizzo del brand di proprietà della società lussemburghese con una royalty annua pari allo 0,5% del fatturato , motivando che «sta nella libertà imprenditoriale modificare le modalità dei rapporti contrattuali ed un incremento del fatturato, sia pure modesto, conferma l’utilità dell’utilizzo del marchio nella denominazione sociale».

La sentenza

I giudici regionali, nel confermare la decisione di prime cure, offrono ulteriori e approfondite motivazioni sulla «questione royalty». In particolare la Ctr sul punto pone l’accento sull’assunto dell’Ufficio, fondato sulla differenza che il codice civile fa tra denominazione sociale e marchio , che «trovava singolare come un soggetto veniva chiamato a corrispondere un canone per l’utilizzo del proprio stesso nome , atteso che quel nome era parte integrante della denominazione sociale».

Secondo i giudici la decisione del gruppo, consistita nel fatto che la capogruppo pretendesse il pagamento di royalty da parte della controllata italiana, non è censurabile e a nulla importa il fatto che il versamento delle royalties da parte della società italiana fosse stato effettuato in anni successivi rispetto alla registrazione del logo aziendale; non può essere insolito, chiosa il Collegio, che un soggetto sia chiamato a corrispondere un canone per l’utilizzo del proprio nome seppure lo stesso faccia già parte della denominazione sociale della società controllata e quindi non è vietato che la casa madre possa pretendere una royalty per l’utilizzo del brand.

Anche se precedentemente non vi era stata la corresponsione di tale onere, ciò non vieta che successivamente le società abbiano sottoscritto uno specifico e particolare contratto di royalty. Nel caso in esame, conclude la Ctr, vi è correlazione fra royalty e ricavi relativi alle vendite effettuate nel territorio perché sussiste uno stretto rapporto di causa-effetto. Tale rapporto risultava dimostrato dal fatto che l’utilizzo del marchio rappresentasse il door opener (facilitatore ) per poter raggiungere clienti e fornitori di rilevanti dimensioni, a nulla rilevando il fatto che l’aumento del fatturato dei prodotti relativi alla distribuzione dei fornitori globali si sia realizzato sostanzialmente solo negli anni successivi alla stipulazione dell’accordo.

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