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Cessione delle partecipazioni, se la norma sbagliata crea un circolo vizioso

La prima anomalia è l’assenza di un’unica categoria di tassazione dei redditi finanziari

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di Raffaele Rizzardi

Può una norma tecnicamente sbagliata creare il presupposto per interpretazioni relative a situazioni di abuso inesistenti ma a rischio di accertamento?

La cessione di partecipazioni nell’ambito delle operazioni di riorganizzazione aziendale ha formato oggetto di ampi commenti nell’edizione del Sole 24 Ore del 15 ottobre (si veda l’articolo su Nt+ Fisco). Non torniamo in questa sede sulle puntuali osservazioni relative alle perplessità relative alle conclusioni cui l’agenzia delle Entrate è pervenuta nelle tre risposte a interpello 341 e 537 del 2019 e 242 del 2020. Vogliamo in questa sede inquadrare gli errori e le asimmetrie delle disposizioni sovraordinate, sia di sistema che specifiche per la materia in commento.

La prima anomalia del nostro ordinamento riguarda la distinzione tra redditi di capitale e redditi diversi. Chi acquista una partecipazione può ritrarne l’utile o il guadagno (usiamo termini volutamente atecnici) in tre modi:

1) con la percezione del dividendo;

2) con la cessione della partecipazione comprensiva degli utili non prelevati e dei plusvalori latenti;

3) partecipando alla distribuzione operata dalla società in sede di liquidazione generale o individuale (recesso).

I proventi dei numeri 1) e 3) sono considerati redditi di capitale, del numero 2) reddito diverso.

In una legge delega del 2003, mai attuata su questo punto, si ipotizzava l’unificazione dei proventi in una unica categoria di “redditi finanziari”. Così non è avvenuto – l’auspicio si rivolge attualmente a chi predisporrà la nuova riforma fiscale – in quanto l’erario guadagna molto di più. Se ci fosse un’unica categoria si potrebbero compensare, ad esempio, i dividendi con le perdite sul realizzo delle partecipazioni.

Un esempio concretamente avvenuto: una persona fisica, titolare di una partecipazione con il costo fiscale di 100mila euro concorda con l’acquirente un corrispettivo di 110mila euro. Non avendo appoggi sul sistema bancario, chiede al venditore di prelevare prima il dividendo nei limiti della liquidità disponibile (30mila euro), così che la transazione si chiude a 80mila euro. Chi vende si trova così con un reddito di capitale di 30mila euro, compensato da una minusvalenza di 20mila, nella specie non utilizzabile a riporto perché si trattava dell’unica partecipazione posseduta da quel soggetto. E comunque non è molto logico avere un reddito di 30mila euro, quando l’operazione chiudeva con 10mila.

Passiamo a questo punto alla norma generatrice delle interpretazioni di cui ci siamo occupati. La rivalutazione delle partecipazioni non quotate (o “rideterminazone del valore”, come dice la norma) è stata introdotta con l’articolo 5 della legge 448 del 2001, sempre prorogata sino ai giorni nostri nella sua formulazione di allora.

Vero è che la norma parla solo di rivalutazione agli effetti del capital gain (reddito diverso), ma questa limitazione deve essere contestualizzata nel Tuir dell’epoca, che prevedeva l’attribuzione del credito di imposta sulle riserve di utili distribuite in sede di liquidazione o recesso (oltre che sul dividendo). Pertanto, l’onere effettivo per questa categoria di reddito poteva essere ridotto ai minimi termini e non necessitava di una rivalutazione del titolo.

Nel 2004 il Tuir è stato sensibilmente modificato per questi aspetti, in primis con l’abolizione del credito di imposta sui dividendi, che ha reso identica la base imponibile positiva (l’unica differenza è per i risultati negativi, non riportabili nei redditi di capitale) sia per i redditi di capitale (articolo 47, comma 7) che per il capital gain (articolo 68, comma 6), come differenza tra l’importo percepito e il costo fiscale della partecipazione ceduta o annullata.

È pertanto una grave anomalia normativa che si continui a prorogare una disposizione del 2001, senza che ci si sia resi conto del contesto in cui era stata scritta (Tuir sino al 2003), che non è più attuale sin dal 2004, anno in cui abbiamo avuto sia la modifica del Tuir che del diritto societario.

La correzione normativa che occorre portare avanti è molto semplice, sostituendo la limitazione della rivalutazione al capital-gain con la rilevanza a tutti gli effetti.