Controlli e liti

La rivalutazione delle partecipazioni fa i conti con l’abuso del diritto

Per il Fisco il vantaggio tributario indebito è più alto di quanto percepito

di Michela Folli e Marco Piazza

La riapertura della facoltà di rideterminare il costo d'acquisto delle partecipazioni ai fini del calcolo dei capital gain (resa possibile fino al 15 novembre prossimo per le partecipazioni detenuta il 1° luglio 2020 dall'articolo 137 del Dl 34/2020) rende necessarie alcune riflessioni sul rischio che l’amministrazione finanziaria consideri abusivo l'esercizio dell'opzione, avvalendosi dell'articolo 10-bis della legge 212/2000.

Prescindendo dal fatto che si possano o meno condividere alcune specifiche prese di posizione dell'Agenzia, bisogna cercare di individuare il filo conduttore che accomuna le varie risposte ad interpello pubblicate.

Le fasi della valutazione di abuso del diritto

Un denominatore comune delle risposte è dato dal percorso seguito dall'agenzia delle Entrate nell'analisi dei singoli casi.

Fase 1. Il primo passo consiste nel valutare se l'operazione o il complesso di operazioni fra loro consequenziali comporti un “vantaggio tributario”.

Fase 2. Il secondo passo consiste nel valutare se il vantaggio tributario sia “indebito” ossia se una o più delle operazioni programmate comporti un utilizzo improprio di norme fiscali; in particolare, se tali norme siano utilizzate per il conseguimento di risultati non rientranti fra quelli voluti dal legislatore.

Le norme in commento sono evidentemente quelle agevolative (che possono generare vantaggi tributari); con riferimento alle partecipazioni si tratta soprattutto dell'articolo 5 della legge 448/2001 (rideterminazione del costo delle partecipazioni). Una norma di chiusura dispone che resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale.

Secondo la relazione illustrativa, la norma sottolinea che il contribuente può legittimamente perseguire un risparmio d'imposta esercitando la propria libertà di iniziativa economica scegliendo, fra gli atti, i fatti e i contratti possibili, quelli meno onerosi sotto il profilo impositivo, ma aggiunge che l'unico limite a tale libertà è costituito dal divieto di perseguire un vantaggio fiscale indebito. Ciò comporta, secondo la relazione, la necessità di individuare, ai fini della configurazione dell'abuso, la ratio delle norme utilizzate. Un legittimo risparmio d'imposta è la scelta, per dar luogo all'estinzione di una società, di procedere a una fusione anziché ad una liquidazione, dato che nessuna disposizione tributaria mostra “preferenza” per l'una o per l'altra operazione. Altra scelta che non genera un vantaggio tributario indebito è quella di realizzare una plusvalenza in una società “trasparente” ai fini fiscali piuttosto che in una società “opaca” (risposta 503 del 2019).

In altri termini, non è certamente abusivo, a prescindere da ogni valutazione sulle valide ragioni economiche, scegliere quella meno onerosa fra più operazioni che non generano vantaggi tributari indebiti.

Va notato che per l'Agenzia la presenza di un numero superfluo di negozi giuridici costituisce indizio dell'esistenza di un vantaggio tributario indebito (risposte 342 del 2019 e 242 del 2020).

Fase 3. Ove nello sviluppo della fase 2 si sia giunti alla conclusione che il progetto comprende operazioni che, singolarmente o nel loro insieme, comportano vantaggi tributari indebiti, non è detto il contribuente incorra in un caso di abuso del diritto. Infatti, non si considerano abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali. In pratica se il vantaggio tributario indebito è un incidente di percorso nell'ambito di operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, l'abuso del diritto non è contestabile. Va notato che, per l'agenzia delle Entrate, la “non marginalità” delle ragioni extrafiscali sussiste solo quando le operazioni rappresentate non sarebbero state poste in essere in assenza di tali ragioni (risposta 242 del 2020).

Distribuzione dell'onere della prova

L'onere di dimostrare la sussistenza del vantaggio tributario indebito (fasi 1 e 2) è a carico dell'amministrazione finanziaria mentre quello di dimostrare l'esistenza di valide ragioni economiche extrafiscali è a carico del contribuente.

Le prime due fasi del processo di analisi, a differenza della terza (peraltro solo eventuale), dovrebbero essere scevre da valutazioni soggettive (si veda anche la circolare Assonime 27/2018, pag. 30). Tuttavia, anche per la complessità della norma fiscale, si prestano all'applicazione di interpretazioni discordanti.

Dall'analisi degli interpelli più recenti, pare di capire che l'amministrazione finanziaria da un lato abbia un concetto di “vantaggio tributario indebito” più ampio di quello percepito dalla maggioranza dei contribuenti; dall'altro non si sottragga all'esame delle valide ragioni economiche addotte dal contribuente, spesso accogliendole.

In pratica, il giudizio sull'elusività dell'operazione coinvolge frequentemente la fase 3, facendola divenire da “solo eventuale” a “quasi necessaria”, con l'effetto da un lato di tendere a spostare sul contribuente l'onere della prova; dall'altro di portare il confronto su un campo più soggettivo, dato che per pesare le valide ragioni economiche sono necessarie valutazioni fattuali. Pare, in proposito, di comprendere che il giudizio sull'esistenza delle valide ragioni economiche si fondi essenzialmente sul fatto che il complesso di operazioni poste in essere risponda a “normali logiche di mercato” (risposte 341 e 537 del 2019 e 242 del 2020, con riferimento alle cessioni di partecipazioni; ma vedere anche le risposte 30 e 70 del 2018 in tema di scissione, 469 del 2019 in tema di conferimento d'azienda), ma anche – come del resto suggerisce il tenore letterale della norma – sulla marginalità dei vantaggi tributari se posti a confronto con gli obiettivi economici che il contribuente intende raggiungere.

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