Imposte

Digital tax, rischio blocco per i decreti di attuazione

di Alessandro Galimberti

Anche se l’Ecofin ha alzato bandiera bianca, prendendo atto della renitenza di almeno otto paesi Ue ad affrontare il tema, e anche se la presidenza di turno romena ha già detto che il dossier non verrà presentato nei prossimi sei mesi, la questione della tassazione digitale rimane aperta sul tavolo del regolatore europeo e di quelli nazionali, e migrerà sui banchi del prossimo Parlamento continentale.

Con quali speranze e possibilità di finalizzazione, è stato il tema del dibattito che ieri mattina alla Luiss ha messo a confronto il Mef (Fabrizia Lapecorella), la presidente della commissione Finanze della Camera, Carla Ruocco, Confindustria digitale (Elio Catania), Antonella Magliocco (Tax department di Banca d’Italia) e Ivan Vacca (Assonime), introdotti da Franco Gallo e da Tommaso di Tanno, coordinatore della ricerca sulle Web tax dell’Istituto Bruno Visentini.

Il tema di come recuperare a tassazione l’enorme marginalità digitale non è solo e tanto divisivo, ma è proprio una questione di riaggiornare criteri, presupposti e asset della fiscalità. Perché se è vero che il valore reale dell’attività dell’impresa digitale oggi è fuori dalla stessa (essendo rappresentato dall’attività online svolta dagli utenti del servizio, cioè dai dati auto-profilanti), la destrutturazione dell’impostazione classica della fiscalità cross-border (cioè la stabile organizzazione + il transfer pricing) è bella che servita.

Come sostituire, allora, questo pilastro della redistribuzione reddituale? Qui il tema è apertissimo, almeno da questo lato dell’Atlantico, e le scuole di pensiero vanno dal consolidamento del profitto multi-nazionale, riallocato poi sulla base di parametri predefiniti (sì ma quali?) alla tassazione là dove è prodotto il valore, impostazione questa che piace moltissimo agli Usa inventori e proprietari degli algoritmi (cioè del valore di rete). Non è un caso che la riforma fiscale di Trump abbia così riattratto, attraverso Gilti e la tassa di rientro dei redditi offshore, qualche centinaio di miliardi di dollari, ignorando bellamente ogni ipotesi di concertazione internazionale.

In questo contesto come si pongono le norme di supplenza nazionali, di cui la digital tax italiana oggi rischia di essere in Europa l’unico fronte avanzato? In un limbo rischioso, argomenta Elio Catania di Confindustria digitale, perché il tema non dovrebbe essere ritagliare una fiscalità su misura degli over the top, ma piuttosto disegnare una nuova fiscalità per la nuova economia che è di fatto integralmente digitale (a questo proposito Di Tanno ha rivelato che già dieci anni fa il valore azienda di una grossa multinazionale era poggiato per il 70% sulla banca dati clienti, un precursore degli odierni intangible).

Intanto però si avvicina il 30 aprile, data ultima (ma non perentoria) per l’approvazione dei decreti destinati a varare la digital tax italiana. Data che, ha lasciato intendere Fabrizia Lapecorella, decorrerà inevasa, lasciando aperta la questione dei 150 milioni di gettito attesi per 2019 ma soprattutto, ha sottolineato Antonella Magliocco, i 1200 previsti per il 2020/21. Sul tema la presidente Carla Ruocco ha annunciato un’indagine conoscitiva della Commissione Finanze.

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