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Imposta di successione, per l’esenzione degli enti ecclesiastici conta anche l’attività svolta

Per la Cassazione la sola natura non attesta lo scopo esclusivo di religione e di culto equiparabile a beneficenza o istruzione

di Ilaria Ioannone e Gabriele Sepio

Per l’esenzione da imposta di successione per gli enti ecclesiastici non conta solo la natura ma anche l’attività svolta. Questo il chiarimento reso dalla Cassazione con la sentenza 1149/2021 con cui viene precisato che, ai fini della fruizione dell’agevolazione in questione, occorrerà che il beneficiario abbia come scopo “esclusivo” quello dell’assistenza, lo studio, la ricerca scientifica, l’educazione, l’istruzione o finalità di pubblica utilità. Un principio di diritto a cui la Suprema corte giunge dopo aver esaminato un caso riguardante il trasferimento a titolo gratuito di un bene a un ente ecclesiastico che – a parere dell’agente accertatore – avrebbe dovuto essere sottoposto a imposta di successione ordinaria. La decisione della Cassazione muove da un’attenta analisi dell’articolo 3 del Dlgs 346/1990, che individua i casi di esenzione dall’imposta di successione.

Sono due le ipotesi da considerare.

1) La prima, nel caso di trasferimenti in favore di stato, regioni, province e comuni o di enti pubblici, fondazioni e associazioni che hanno come scopo esclusivo l’assistenza, lo studio, la ricerca scientifica, l’educazione, l’istruzione ovvero finalità di pubblica utilità. In questo caso, il perseguimento di finalità meritevoli se per Stato, regione, provincia, comune è connaturata alla natura stessa dell’ente, per gli altri (i. enti pubblici, fondazioni o associazioni legalmente riconosciute) dipende dalla sussistenza di un elemento oggettivo, rappresentato dallo scopo esclusivo perseguito dall’ente.

2) La seconda ipotesi, invece, considera come non imponibili le liberalità in favore di enti pubblici e di fondazioni o associazioni legalmente riconosciute, diversi da quelli ricompresi al comma 1, purché disposte per le medesime finalità. Un’ipotesi quest’ultima in cui sarà necessaria la verifica, caso per caso, della finalità per la quale è stato disposto il trasferimento e che comporterà per il beneficiario la necessità di dimostrare, entro cinque anni dall’accettazione dell’eredità o della donazione o dall’acquisto del legato, di aver impiegato i beni o diritti ricevuti, o la somma ricavata dalla loro alienazione, per il conseguimento delle finalità indicate dal testatore o dal donante.

Un contesto normativo quello delineato dalla Suprema corte che porta a ritenere che la natura di ente ecclesiastico civilmente riconosciuto non attesti, di per sé, il perseguimento di uno scopo esclusivo di religione e di culto equiparabile, ai fini tributari, a quello di beneficenza o di istruzione. A tali enti, infatti, viene consentito anche lo svolgimento di attività diverse da quelle di religione o di culto.

Di conseguenza, in caso in cui l’ente ecclesiastico sia beneficiario di un trasferimento mortis causa o di una donazione – ai fini dell’esenzione dall’imposta di successione – il regime tributario in concreto applicabile non può essere determinato sulla base della sola natura ecclesiastica del soggetto. Si dovrà, infatti, tener conto dell’attività in concreto esercitata dallo stesso (elemento oggettivo), che potrà o meno coincidere con il fine dichiarato nell’atto costitutivo.