Controlli e liti

Imprese familiari, al Fisco risponde solo il titolare

I maggiori ricavi non possono essere attribuiti pro quota ai collaboratori

di Giorgio Gavelli

I maggiori ricavi emersi in sede di accertamento di un’impresa familiare determinano un maggior reddito che può essere richiesto solo al titolare e non può essere attribuito pro quota ai collaboratori familiari. La precisazione arriva dalla decisione 541/04/2020 della Ctr Puglia.

Si tratta di un principio non sancito normativamente, ma che la giurisprudenza (sia di legittimità che di merito) ha da tempo fissato, incontrando anche l’assenso dell’amministrazione finanziaria. Ciò nonostante non è raro imbattersi in contenziosi sulla corretta ripartizione dei maggiori redditi e delle perdite tra l’imprenditore e i collaboratori familiari (Ctr Lazio 1144/09/2014, Ctp Reggio Emilia 384/03/2014, Ct I° grado Trento 13/04/2013, Ctp Palermo 36/02/2012).

L’istituto disciplinato dall’articolo 230-bis del Codice civile trova il proprio trattamento fiscale all’articolo 5 del Tuir, secondo un meccanismo di trasparenza limitata. Al comma 4, viene, infatti, previsto che il reddito d’impresa è imputato (in presenza di una serie di condizioni) a ciascun familiare che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili ma, complessivamente, nei limiti del 49% del totale. Con risoluzione 134/E/2017 l’Agenzia ha esteso questi concetti alle unioni civili e alle convivenze di fatto (articolo 230-ter). In caso di accertamento, secondo le Entrate l’intero maggior reddito è richiesto al titolare (circolari 6/9/207/1984 e 23/E/2003) che è l’unico soggetto nei cui confronti possono essere irrogate le sanzioni amministrative e penali derivanti dagli atti impositivi riferiti all’impresa (in questo senso, anche l’ordinanza di Cassazione 34222/2019 e la sentenza 30842/2017, secondo la quale, peraltro, i redditi imputati ai collaboratori perdono la natura di reddito d’impresa assumendo quella di redditi di lavoro). Diversamente, con le stesse proporzioni del reddito, ai collaboratori familiari vanno imputate le rispettive quote delle ritenute d’acconto subite dall’impresa e, in linea generale, dei crediti d’imposta maturati.

Va poi ricordato che, nell’impresa familiare, l’intera perdita di periodo va attribuita al titolare, che è il solo soggetto che può fiscalmente utilizzarla in compensazione o a riporto.Per quanto riguarda l’uscita del collaboratore, la risoluzione 176/E/2008 ha chiarito che la somma liquidata non ha rilevanza reddituale, per cui non va assoggettata a Irpef in capo al collaboratore e non costituisce, parallelamente, componente negativo deducibile dal reddito d’impresa (Cassazione 15962/2019).Infine, in caso di plusvalenze emergenti dal trasferimento dell’azienda, la risoluzione 78/E/2015 ha optato per la rilevanza fiscale solo (e integralmente) in capo al titolare, in analogia con quanto da tempo chiarito con riferimento al conferimento di azienda (circolare 320/E/1997 e risoluzione 233/E/2008).

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